— Posso farcela. Ce la farò.
— Il Greyhound vi porterà a Pine Bluff, o addirittura a Little Rock. Uhm. Il bus costa denaro.
— Signor Hunter, siete stato più che gentile. Ho con me la mia carta di credito. Posso pagare il bus. — Non ero uscita in forma smagliante dall’acqua e dal fango, ma le carte di credito, la carta d’identità, il passaporto e i soldi erano al sicuro nella cintura impermeabile che Janet mi aveva dato anni luce prima; si era salvato tutto. Un giorno o l’altro glielo avrei detto.
— Bene. Ho pensato fosse meglio chiedere. Un’ultima cosa. Da queste parti, in genere la gente bada ai fatti propri. Se salite diritta sul Greyhound, i pochi impiccioni non avranno nessuna scusa per darvi fastidio. Meglio così, credo. Be’, arrivederci e buona fortuna.
Lo salutai e partii. Avrei voluto dargli il bacio dell’addio, ma una sconosciuta non si prende libertà con un uomo come il signor Hunter.
Presi il Vma di mezzogiorno e alle 12,52 ero a Little Rock. Una capsula espresso diretta a nord stava imbarcando quando raggiunsi la sotterranea. Ventun minuti più tardi ero a Saint Louis. Da una cabina della sotterranea feci il numero di contatto di Boss, per organizzare il trasferimento al quartier generale.
Una voce rispose: — Il numero che avete usato non è in servizio. Restate in linea e un centralinista… — Interruppi la comunicazione e scappai.
Restai nella città sotterranea diversi minuti, camminando a caso e fingendo di guardare le vetrine, ma in realtà allontanandomi sempre più dalla stazione.
Trovai un terminale pubblico in un centro commerciale a una certa distanza e provai il codice d’emergenza. Quando la voce arrivò a: — Il numero che avete usato non è… — premetti il tasto per interrompere la linea, ma la voce non si fermò. Abbassai la testa, mi buttai in ginocchio, uscii dalla cabina e girai a destra; attirai l’attenzione su di me, una cosa che odio, ma forse evitai di essere fotografata tramite il terminale, una cosa che sarebbe stata un disastro.
Sprecai minuti a confondermi nella folla. Quando fui ragionevolmente certa che nessuno mi seguisse, scesi di un livello, salii sulla metropolitana locale e mi spostai a Saint Louis Est. Avevo un ultimo codice d’emergenza, ma non intendevo usarlo senza i dovuti preparativi.
Il nuovo quartier generale sotterraneo di Boss si trovava a una sessantina di minuti da ogni possibile punto, ma io non sapevo dove fosse.
Voglio dire che quando lasciai l’infermeria per partire per il corso d’addestramento, il viaggio in Vma durò esattamente sessanta minuti. Quando tornai impiegai sessanta minuti. Quando partii in ferie e chiesi che mi accompagnassero alla stazione delle capsule, venni depositata a Kansas City in sessanta minuti esatti. E il passeggero di un Vma destinato a questi usi non ha alcun modo di guardare fuori.
Stando a geometria, geografia, e a una conoscenza minima di ciò che può fare un Vma, il nuovo quartier generale di Boss doveva trovarsi da qualche parte più o meno nei pressi di Des Moines; ma in questo caso «più o meno» significava un raggio di almeno cento chilometri. Non feci ipotesi.
Neanche sull’identità delle persone del nostro gruppo che conoscevano la posizione del quartier generale. Era un’informazione impartita «solo in caso di necessità», e cercare di indovinare in che modo Boss decidesse queste cose era uno spreco di tempo.
A Saint Louis Est comperai un mantello col cappuccio, poi una maschera in lattice in un negozio di giochi e scherzi, scegliendone una non grottesca. Poi feci dolorosi sforzi per scegliere assolutamente a caso il terminale. Nutrivo il forte sospetto, ma non la certezza, che Boss avesse subito un altro attacco, questa volta fatale, e l’unico motivo per cui non mi ero ancora lasciata prendere dal panico era che sono addestrata ad arrendermi al panico solo al termine dell’emergenza.
Mascherata e incappucciata, composi l’ultimo codice di cui disponevo. Stesso risultato, e di nuovo era impossibile spegnere il terminale. Girai la schiena all’apparecchio, mi tolsi la maschera e la lasciai cadere a terra, uscii dalla cabina al rallentatore, girai l’angolo, mi levai il mantello mentre camminavo, lo ripiegai, lo infilai in un cestino per i rifiuti, tornai a Saint Louis dove, con perfetta faccia di bronzo, usai la carta di credito della Banca Imperiale di Saint Louis per pagare la sotterranea per Kansas City. Un’ora prima, a Little Rock, me n’ero servita senza esitazioni, ma allora non sospettavo che a Boss fosse successo qualcosa; in effetti, cullavo la convinzione «religiosa» che nulla potesse succedere a Boss. (Religioso = fede assoluta senza prove concrete.)
Adesso invece ero costretta ad agire partendo dal presupposto che a Boss fosse accaduto qualcosa, il che comprendeva l’ipotesi che la mia MasterCard di Saint Louis (basata sui soldi di Boss, non sui miei) potesse andare a farsi friggere da un momento all’altro. Potevo infilarla in una fessura e vederla bruciare dal meccanismo di distruzione, non appena la macchina avesse riconosciuto il numero.
Quattrocento chilometri e quindici minuti dopo ero a Kansas City. Non lasciai mai la stazione. Telefonai dal banco delle informazioni per chiedere notizie sulla linea KC-Omaha-Sioux Falls-Fargo-Winnipeg e mi risposero che la linea funzionava fino alla località di confine di Pembina, non oltre.
Cinquantasei minuti più tardi ero al confine col Canada Britannico, direttamente a sud di Winnipeg. Era ancora il primo pomeriggio. Dieci ore prima arrancavo sulla riva fangosa del Mississippi e mi chiedevo, stordita, se fossi nell’Impero o se invece non fossi già tornata in Texas.
Adesso ero orribilmente ansiosa di uscire dall’Impero, più di quanto lo fossi stata di entrarci.
Per il momento ero riuscita a distanziare di un balzo di pulce la Polizia Imperiale, ma ormai ero del tutto certa che volessero parlare con me. E io non volevo parlare con loro perché avevo sentito certi racconti sul loro modo di condurre le indagini. I ragazzi che mi avevano interrogata tempo addietro erano stati moderatamente duri… ma la Polizia Imperiale aveva la reputazione di bruciare il cervello alle sue vittime.
19
Quattordici ore più tardi mi ero spostata solo di venticinque chilometri a est del punto in cui avevo dovuto lasciare la sotterranea. Avevo trascorso un’ora in compere, quasi un’ora a mangiare, più di due ore per un serrato consulto con uno specialista, sei ore celestiali a dormire, e quasi quattro a trasferirmi con somma cautela a est, tenendomi parallela alla barriera di confine senza avvicinarmi troppo; e adesso era l’alba e io raggiungevo la barriera, la toccavo, e prendevo a seguirla, sotto le spoglie di un’annoiata addetta alle riparazioni.
Pembina è solo un villaggio. Avevo dovuto tornare a Fargo per trovare uno specialista; un viaggetto veloce, con la capsula. Lo specialista che cercavo lavorava nello stesso ramo della «Artisti Ltd.» di Vicksburg, solo che la sua ditta non faceva pubblicità nell’Impero; occorsero tempo e caute bustarelle per trovarlo. Aveva l’ufficio in centro, dalle parti di Main Avenue e University Drive, però si nascondeva dietro la facciata di un’attività più convenzionale; non era facile scovarlo.
Indossavo ancora la tuta in neocotone blu stinto che avevo addosso quando mi ero buttata dalla Skip to M’Lou, non perché ci fossi particolarmente affezionata, ma perché una tuta blu in tessuto ruvido è la miglior approssimazione possibile a un vero unisex internazionale. Va bene persino su Elle-Cinque o a Luna City, dove peraltro sono più diffusi i monokini. Aggiungete un foulard, e la casalinga in gamba la indosserà per fare la spesa; portate una ventiquattro ore, e siete un rispettabile uomo d’affari; accucciatevi per strada con un cappello sul marciapiede, ed è un’uniforme da barbone. Si sporca difficilmente, si lava facilmente, non fa pieghe, ha una durata praticamente eterna; quindi è l’ideale per il corriere che vuole mimetizzarsi nell’ambiente e non può sprecare tempo o bagagli per il guardaroba.