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Burt emise i doverosi suoni animaleschi quando apparvi in Superpelle, e io lo lasciai guardare e mi agitai un po’ e gli dissi che l’avevo comperata esattamente per quello, perché ero il tipo di donna che non si vergogna nemmeno un po’ di essere femmina, e volevo ringraziarlo per quello che aveva fatto per me; i miei nervi, prima, erano tesi come corde d’arpa e adesso erano talmente rilassati da strisciare per terra e io avevo deciso di offrire la cena per dimostrargli la mia riconoscenza.

Lui si offrì di fare a braccio di ferro per il conto. Non gli dissi che dovevo stare ben attenta, nei momenti di passione, a non rompere le ossa maschili; sfoggiai qualche risatina e basta. Probabilmente le risatine sono un po’ stupide in una donna della mia età, ma va così: quando sono felice, io ridacchio.

Non dimenticai di lasciare un biglietto per le mie amiche.

Quando tornammo sul tardi, le due erano scomparse, così Burt e io andammo a letto, dopo aver aperto il divano matrimoniale. Mi svegliai quando Anna e Blondie, di ritorno dalla cena, rientrarono in punta di piedi. Ma finsi di continuare a dormire, immaginando che il mattino non fosse troppo lontano.

Il mattino dopo, a un certo punto, mi resi conto che Anna ci scrutava e non era troppo allegra; e, onestamente, solo allora per la prima volta mi sfiorò l’idea che ad Anna potesse dispiacere trovarmi a letto con un uomo. Sicuro, avevo capito da che parte pendesse tanto tempo prima; sicuro, sapevo che pendeva dalla mia parte. Ma lei stessa aveva frenato gli ardori e io avevo smesso di considerarla una questione in sospeso da affrontare un giorno o l’altro; lei e Blondie erano semplicemente due care ragazze, amiche del cuore di cui mi fidavo e che si fidavano di me.

Burt disse, in tono lamentoso: — Non guardarmi in cagnesco, donna. Sono finito qui per ripararmi dalla pioggia.

— Non ti guardavo in cagnesco — ribatté lei, troppo seria.

— Stavo semplicemente cercando il modo per aggirare il letto e arrivare al mio terminale senza svegliarvi. Voglio ordinare la colazione.

— Ordini per tutti? — chiesi.

— Certo. Cosa volete?

— Un po’ di tutto con contorno di patate fritte. Anna, tesoro, mi conosci. Se non è morto, lo uccido e me lo mangio tutto, comprese le ossa.

— E lo stesso per me — aggiunse Burt.

— Vicini di stanza casinari. — Blondie, sbadigliante, era apparsa sulla soglia. — Juke-box umani. Rimettetevi a dormire. — Io la guardai e mi resi conto di due cose: prima non l’avevo mai guardata sul serio, nemmeno alla spiaggia. E, secondo, se Anna era irritata con me perché avevo dormito con Burt, non aveva la minima scusa: Blondie esprimeva una sazietà quasi indecente.

— Significa «isola del porto» — stava dicendo Blondie — e dovrebbe avere almeno un trattino d’unione, perché nessuno riesce a scriverlo o pronunciarlo. Così mi faccio chiamare Blondie e basta. Facile nell’agenzia del Padrone, dove i cognomi sono sempre stati scoraggiati. Però come cognome è molto più difficile Tomosawa. Dopo che l’ho sbagliato per la terza o quarta volta, lei mi ha chiesto di chiamarla Gloria.

Stavamo terminando una grossa colazione, e le mie due amiche avevano parlato con Gloria e il testamento era stato letto e tutte e due (e anche Burt, con sorpresa mia e sua) erano adesso un po’ più ricche e ci stavamo preparando a partire per Las Vegas: tre di noi in cerca di lavoro, mentre Anna ci avrebbe semplicemente tenuto compagnia finché noi non fossimo decollati o che altro.

A quel punto, Anna sarebbe andata in Alabama. — Forse mi stancherò di oziare. Ma ho promesso a mia figlia che mi sarei messa in pensione, ed è il momento giusto. Rifarò la conoscenza dei miei nipotini prima che diventino troppo grandi.

Anna una nonna? Ma ci si conosce mai, a questo mondo?

25

Las Vegas è un circo a tre piste col mal di testa da dopo-sbronza.

Per un po’ mi piace. Ma quando ho visto tutti gli show arrivo al punto che le luci e la musica e il frastuono e l’attività frenetica diventano troppo. Quattro giorni sono più che sufficienti.

Arrivammo a Vegas verso le dieci, dopo una partenza protratta perché tutti noi avevamo affari da sbrigare. Tutti, a parte me, dovevano fare i preparativi per poter ricevere i soldi del testamento di Boss, e io dovevo depositare l’assegno per chiudere il conto con la MasterCard. Cioè, cominciai a farlo. Mi fermai di botto quando il signor Chambers disse: — Volete firmarci l’ordine di pagare le tasse sul reddito per questa cifra?

Tasse sul reddito? Che proposta oscena! Non credevo alle mie orecchie. — Di cosa si tratta, signor Chambers?

— Delle tasse che dovete alla Confederazione. Se chiedete a noi di occuparcene, ecco qui il modulo, i nostri esperti fanno i conti e noi le paghiamo e le deduciamo dal vostro capitale e voi non avete fastidi. Addebitiamo solo un onorario nominale. Diversamente, dovrete calcolare tutto da voi e riempire i moduli e fare la fila per pagare.

— Ma era il premio di una lotteria nazionale! La vostra lotteria, libera da ogni balzello! Lo Stile Democratico! E poi il governo ci guadagna già con gli incassi dei biglietti. Che percentuale di guadagno ha?

— Credetemi, signorina Baldwin, questa domanda va rivolta al governo, non a me. Se volete firmare qui in fondo, io riempirò il resto.

— Tra un attimo. Quant’è questo «onorario nominale»? E quant’è la tassa?

Me ne andai senza depositare l’assegno, e il povero signor Chambers se la prese un’altra volta con me. Anche se gli orsi sono talmente inflazionati che bisogna metterne assieme un bel mucchio per comperare un Big Mac, non considero «nominali» mille orsi; sono più di un grammo d’oro, trentasette dollari del Canada Britannico. Con l’otto per cento in più per il servizio, la MasterCard ci guadagnava parecchio a raccogliere i soldi per l’apparato fiscale (il Fisco Eterno) della Confederazione.

Non ero certa di dovere tasse sul reddito nemmeno con la legislazione balorda della California: la maggior parte di quel denaro non era stato guadagnato in California, e proprio non vedevo che diritti potesse accampare la Confederazione sul mio stipendio. Volevo prima consultare un buon avvocato.

Tornai al Cabaña Hyatt. Blondie e Anna erano ancora fuori, ma Burt c’era. Gli parlai della faccenda; sapevo che si era occupato di servizi logistici e contabilità.

— È un punto dubbio — mi disse. — I contratti fra il personale e il Presidente portavano tutti la clausola «esente da tasse», e nell’Impero le bustarelle da sborsare venivano negoziate ogni anno. Qui avrebbe dovuto essere pagato qualcosa tramite il signor Esposito, cioè tramite la signora Wainwright. Puoi chiedere a lei.

— Col cavolo!

— Appunto. Avrebbe dovuto avvertire il Fisco Eterno e aver pagato le tasse dovute… Dopo qualche negoziato, se mi spiego. Però forse è una che tira bidoni, non so. In ogni caso, tu hai un passaporto extra, no?

— Certo! Sempre.

— Allora usalo. È quello che farò io. Poi trasferirò il denaro quando saprò dove sono finito. Nel frattempo lo lascerò al sicuro sulla Luna.

— Burt, sono sicura che la Wainwright ha un elenco di tutti i passaporti extra. Mi stai dicendo che ci controlleranno ai punti d’uscita?

— E se anche ha l’elenco? Non lo cederà alla Confederazione senza prima assicurarsi il suo guadagno, e dubito che abbia avuto il tempo di farlo. Quindi paga la solita bustarella e tieni il naso per aria e supera tranquillamente la barriera.

Finalmente qualcosa che capivo. Per un attimo mi ero talmente indignata a quell’idea lurida che avevo smesso di pensare da corriere.

Entrammo nello Stato Libero di Vegas a Dry Lake; la capsula si fermò solo il tempo sufficiente per le stampigliature d’uscita della Confederazione. Ognuno di noi usò un passaporto alternativo col solito malloppo dentro. Non ci furono guai. E nessun visto d’entrata, perché lo Stato Libero se ne frega della Dsi; da loro, ogni ospite solvente è benvenuto.