Выбрать главу

Anya rise e, mutandosi in un bagliore argenteo, svanì lentamente. Ormazd restò solo, sospeso al di là dello spazio e del tempo, chiedendosi se le creature che aveva insediato sul minuscolo pianeta chiamato Terra reggessero davvero il peso del continuum sulle loro fragili spalle.

Anche gli dei possono piangere, e mentre pensava alla Terra e agli strani intrecci in cui causa ed effetto a volte si fondono, Ormazd si sentì vecchio e solo.

PARTE SECONDA

Assassino

9

Aprii gli occhi e mi ritrovai in mezzo a una distesa piatta e desolata. Il terreno era sabbioso, con chiazze d’erba sparse qui e là. Il cielo era sereno, anche se una coltre di fumo si levava all’orizzonte sulla mia destra, tenendo le sue dita sudice verso l’azzurro. Bruciava qualcosa. Qualcosa delle dimensioni di una grandissima città, a giudicare dall’enorme massa fumosa.

Il sole mi batteva caldissimo sulle spalle nude. Indossavo solo un gonnellino e un paio di sandali. Non mi meravigliai di essere ancora vivo. Ricordavo di essere morto nel reattore. Non ero scampato a quell’inferno, lo sapevo. Questa era un’altra vita. Mi sentivo forte, completamente padrone di me stesso, anche se mi tremarono le ginocchia al pensiero di quello che avevo passato in quell’ultima manciata di secondi nel ventesimo secolo.

Ventesimo secolo? Non so come, eppure ero certo di trovarmi in un’epoca diversa, precedente. Ahriman aveva detto che stavo muovendomi nel tempo al contrario, dalla Fine verso La Guerra. Era il Re della Menzogna, però in questo gli credevo.

Dov’ero? La distesa arida tutt’intorno non mi forniva alcun indizio. L’unico segno di attività umana era l’immensa pira che ardeva all’orizzonte. Mi incamminai verso la torre di fumo, e il sole alle mie spalle proiettava sul mio percorso un’ombra sempre più lunga col trascorrere penoso delle ore.

Era difficile controllare la sete. Bloccando il sudore, la mia temperatura interna saliva troppo e rischiavo capogiri e svenimenti. Ma lasciando che le ghiandole sudoripare facessero il loro lavoro, il mio corpo cominciava a disidratarsi. In parte potevo attingere umidità dal plasma sanguigno e dall’acqua contenuta nelle cellule degli organi addominali, ma anche questo era un gioco pericoloso che poteva portare fatalmente alla disidratazione. Come qualsiasi essere umano nel caldo implacabile del deserto, anch’io avevo bisogno di acqua. Un bisogno sempre più disperato.

In lontananza, a sinistra, vidi degli uccelli volteggiare in cerchio. Avvoltoi. Qualcosa… qualcuno, morto o moribondo in quella direzione. Animale o umano, forse avrei trovato dell’acqua laggiù… o avrei potuto ricavarla dal cadavere. Non che fossi meno schizzinoso della media. Il deserto non permette di essere schifiltosi. Un uomo che sta morendo di sete rinuncia alla compassione prima che alla propria vita.

Gli avvoltoi si abbassarono, mentre incespicavo su rocce calde come pane appena sfornato. Ero anch’io come loro, una bestia mangiacarogne, nel forno spietato del deserto. Finalmente, vidi quello che gli avvoltoi avevano visto prima di me: una famiglia di profughi, stesi esanimi sul fondo sabbioso; un carro rovesciato a qualche metro, con un avvoltoio appollaiato sul bordo di una ruota intento a fissare il pasto imminente. Gli altri uccelli stavano tuffandosi a terra, spiegando le ali mentre si posavano, emettendo schiamazzi osceni mentre ancheggiavano lenti verso i cadaveri.

Presi un sasso arroventato e lo scagliai all’avvoltoio sulla ruota. Lo centrai in pieno in testa, uccidendolo all’istante. Gli altri uccelli non sembrarono quasi accorgersene, finché non scagliai altri tre sassi, colpendo altri due bersagli e mettendo in fuga il resto degli spazzini alati, che presero il volo rabbiosamente in una nube di polvere.

Gli avvoltoi rimasero a volteggiare sopra di me, aspettando con la pazienza della certezza, mentre barcollavo verso i cadaveri. Non erano morti di sete. L’uomo era pieno di ferite, perlopiù alla schiena. Il sangue si era appena rappreso. Sembrava che fosse stato trafitto da diverse frecce, che poi gli aggressori dovevano aver tolto per riutilizzarle. La moglie e i due bambini avevano la gola squarciata. La donna, che dimostrava poco più di vent’anni, era stata denudata quasi del tutto.

Quello che si trovava a bordo del carro era stato portato via; il mezzo era vuoto. Anche i buoi erano scomparsi. Si vedevano le tracce degli ammali sul terreno. Chiunque avesse assalito quella povera famiglia attribuiva maggior valore alle bestie da soma che agli esseri umani. Non c’era acqua, né oggetti personali tra i quattro cadaveri. E nonostante la mia precedente certezza mi resi conto che non avrei potuto devastare ulteriormente i loro corpi straziati per berne il sangue, anche se c’era in gioco la mia vita.

Socchiusi gli occhi verso il cielo abbagliante e vidi che gli avvoltoi erano ancora lassù, pronti, silenziosi. Purtroppo mi mancavano sia gli attrezzi che la forza per seppellire quegli sconosciuti. Ripresi a trascinarmi in direzione della nube di fumo, mentre gli uccellacci vittoriosi si apprestavano a banchettare.

La giornata sembrava interminabile, il caldo sempre più opprimente. Camminai per molte ore, eppure la colonna di fumo era ancora lontanissima. Una parte della mia mente trovava la situazione così assurda da essere quasi buffa. Sicuramente, era stato Ormazd a mandarmi lì. Sicuramente, in questo luogo e in quest’epoca sarebbe successo qualcosa che avrebbe potuto alterare la storia dell’universo; Ahriman avrebbe tentato di nuovo di lacerare lo spazio-tempo e distruggere i continuum. E stando alle apparenze, sicuramente io sarei morto di sete in modo ignominioso prima di iniziare il compito al quale Ormazd mi aveva destinato.

Fu allora che li vidi.

Cinque… no, sei… sei cavalieri che attraversavano lentamente la piana di fronte a me. I loro pony erano magri, macilenti, e chi li montava sembrava altrettanto scarno. I cavalieri portavano elmi di metallo a punta e lunghe lance. Ognuno di loro aveva anche un piccolo arco doppio e una scimitarra.

Mi videro nel medesimo istante in cui li scorsi, fermarono un attimo i pony, poi puntarono verso di me. Avanzavano lentamente, non per prudenza, ma perché sapevano che un uomo a piedi, disarmato e mezzo nudo, non poteva sfuggirgli.

Mentre si avvicinavano, notai che erano orientali, con zigomi alti e i tipici lineamenti appiattiti asiatici. La loro pelle, quel poco che spuntava dalle loro armature di cuoio e metallo, era di una tinta brunastra, ricordava il colore del tabacco conciato. Avevano occhi stretti, ma non eccessivamente a mandorla. Guerrieri mongoli, pensai, o forse alcuni dei primi turchi che avevano invaso il Medio Oriente dalla loro regione d’origine dell’Asia superiore, vicino al lago Baikal.

Si fermarono a una ventina di metri e mi fissarono con la stessa curiosità con cui io li osservavo. Il loro capo, il secondo cavaliere a sinistra, si rivolse agli altri, e io mi accorsi scioccato di capire la loro lingua.

— È diverso dagli altri.

— Forse era uno dei loro schiavi, preso da una tribù diversa.

— Mai visto uno così. Guardate com’è grande! E ha la pelle rosa… quasi come quella di un maiale.

Il cavaliere a destra del capo scoppiò a ridere. — Forse dovremmo portarlo all’Orkhon. Potrebbe ricompensarci per avere trovato una cosa così insolita.

— Uno scherzo di natura, direi.

— Comunque, sembra umano, a parte il colore della pelle.

— E il suo sangue è rosso, scommetto.

Al che, il cavaliere che aveva parlato, quello alla destra del capo, scalciò i fianchi ossuti del pony e partì al galoppo venendomi addosso, calando la lancia in direzione del mio cuore. Gli altri rimasero tranquillamente in sella, osservando quella scena sportiva, sogghignando.

Anche se il colore della mia pelle ricordava loro la pelle di un maiale, non avevo intenzione di farmi infilzare come un maiale. Rimasi immobile, chiamando a raccolta la poca forza che mi restava in corpo. Sentii l’adrenalina scorrermi nelle vene, sollecitando al massimo i miei sensi. Il cavallo e il cavaliere parvero rallentare, ed ebbi il tempo di notare gli occhi sbarrati della bestia che mi inquadravano intimoriti, le sue narici dilatate. La punta della lancia mirava decisa al mio cuore, l’uomo era piegato in avanti, reggendo le redini nella sinistra, la bocca socchiusa, contratta in una smorfia o in un ghigno avido.