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Scegliendo l’attimo giusto, eseguii una schivata da torero, lasciai che la punta affilata mi superasse senza scalfirmi, afferrai l’asta e con uno strattone disarcionai l’orientale allibito. Atterrò su una spalla mentre il cavallo, piegando bruscamente la testa per lo strappo alle redini, ruzzolava sul terreno in una nube di polvere. La lancia si era spezzata, e io mi ritrovai in mano il troncone superiore.

Per un attimo restammo immobili. La polvere si disperse, e il cavallo si drizzò sulle zampe e si allontanò di qualche metro trotterellando, trascinandosi dietro le redini. Gli altri cavalieri, notai, guardarono prima la bestia, e solo dopo essersi assicurati che non fosse ferita spostarono l’attenzione sul compagno che stava alzandosi adagio.

Il braccio sinistro gli penzolava inerte lungo il fianco, però con un ringhio l’uomo estrasse la scimitarra e mi si avventò contro prima che potessi aprir bocca. Parai il fendente con il pezzo di lancia che stringevo, anche se per poco la sua sciabolata violentissima non tranciò il legno. Mentre alzava il braccio per un altro fendente, gli sferrai un calcio nell’addome, facendolo piegare su se stesso. Liberandomi del troncone di lancia inservibile, gli strappai di mano la scimitarra e lasciai che crollasse a terra senza fiato.

Il capo del drappello non perse tempo in chiacchiere. Prese l’arco e incoccò una freccia. Tendendo la corda fino al petto, lasciò partire il colpo. Vidi tutto come in una sequenza al rallentatore, e usai la scimitarra per bloccare a mezz’aria la freccia dalla punta d’acciaio.

Questo gesto li stupì. Ma non a lungo. Erano guerrieri esperti, e non si sarebbero lasciati sfuggire un nemico, per quanto potesse combattere bene. Iniziarono una semplice manovra coi loro pony, circondandomi. Sapevano che non potevo parare frecce scagliate da cinque direzioni diverse.

— Aspettate! — dissi. — Non sono vostro nemico. Sono venuto da lontano per vedere il vostro Khan.

Il guerriero ai miei piedi intanto aveva ripreso fiato, e si sollevò sulle ginocchia, continuando a respirare a bocca spalancata.

— Non ho ucciso il vostro amico, anche se avrei potuto farlo — dissi al loro capo. — Vengo in pace. Non sono un guerriero.

Il capo mi squadro sospettoso. — Ci dici che non sei un guerriero? Dio ci guardi dai guerrieri della tua razza, allora!

— Vengo in pace — ripetei. Ma continuai a impugnare stretta la scimitarra.

— Parli la nostra lingua.

— È vero. Cerco il vostro Khan, il vostro capo.

La sua faccia orientale assunse un’espressione pensierosa. — Il Khan? Il Gran Khan?

— Sì.

— Quest’uomo è un demonio — intervenne uno dei guerrieri. — Uccidiamolo. — E sfilo l’arco.

— No — disse il capo. — Aspetta.

Vedevo che dentro di sé stava lottando accanitamente per decidere che fare. Raramente i guerieri barbari si trovavano di fronte a scelte del genere. Chissà se quei sei cavalieri erano quelli che avevano assalito e ucciso la famiglia che avevo visto prima. Non sembrava che avessero con sé alcun bottino.

— Da dove vieni, straniero? Qual è il tuo nome?

— Mi chiamo Orion — risposi. — E vengo dall’Ovest, da molto lontano.

— Da dietro le montagne dell’Ovest? — domandò un guerriero.

Annuii. — Da più in là dei mari che ci sono dietro quelle montagne.

— Sei un emissario, allora? — chiese il capo.

— Sì. Un emissario di una terra remota. — Speravo che anche i barbari concedessero agli emissari un briciolo di immunità diplomatica.

— E vuoi vedere il Gran Khan. — Non era una domanda.

— Questa è la mia missione — dissi.

Il guerriero ferito si drizzò in piedi, vacillando. Il suo braccio sinistro era inservibile; probabilmente la spalla era rotta. Il calcio che gli avevo dato avrebbe steso un uomo grosso il doppio di lui, lo sapevo. Doveva avere l’addome ammaccato; senz’altro per lui era una sofferenza respirare. Mi fissò un attimo, quindi tese la mano vuota. Riflettei un secondo, poi gli restituii la scimitarra.

Lui la prese, la soppesò, mi sorrise, poi alzò la lama sulla testa, pronto a calarmela sul collo. Lo fissai negli occhi senza batter ciglio. Sapevo che avrei fatto in tempo a parare il colpo se ci avesse provato. Forse era solo una prova, o voleva dimostrarmi che non mi temeva.

Il suo sguardo mi sondò, in cerca della minima traccia di esitazione o paura. Restai immobile. La faccia del guerriero era scarna e dura; una sottile cicatrice bianca gli solcava la guancia sinistra accanto alla mascella.

Il capo del gruppetto, appoggiato con le braccia al pomo della sella, osservava e taceva.

Il guerriero abbassò lentamente la scimitarra. Si voltò e scosse la testa. — È un demonio, non un uomo.

Il capo rise. — È un tipo strano. Lo porteremo all’Orkhon e vedremo che ne farà.

10

Mi fecero camminare, mentre loro erano a cavallo, però furono abbastanza generosi con l’acqua. Bevvi dalla borraccia del capo, poi da quelle di altri due guerrieri, mentre la lunga giornata torrida si trascinava lentamente verso la sua conclusione.

Eravamo in Persia, ne ero certo. E da come parlavano, quei guerrieri irriducibili erano probabilmente mongoli dell’orda devastatrice di Gengis Khan. Eravamo nel dodicesimo o tredicesimo secolo, dunque, e quei barbari stavano devastando il mondo civilizzato dal Catai alle pianure della Polonia.

Provai a rivolgere alcune domande al capo del drappello, ma non mi rispose. Evidentemente aveva deciso di consegnarmi a qualche autorità superiore, e non aveva voglia di discutere. Era un guerriero, non un diplomatico. Però mi aveva risparmiato la vita, e per quella giornata questa era già un’ottima decisione, dal mio punto di vista.

Il sole toccò l’orizzonte del deserto, e in pochi minuti calò la notte. E il freddo. Strinsi i capillari del mio corpo e feci il possibile per mantenermi caldo, ma non avevo l’abbigliamento adatto per una notte nel deserto. I guerrieri non badarono per niente ai miei brividi; continuarono ad avanzare al passo, mentre io arrancavo faticosamente accanto al cavallo del capogruppo.

Era una città, il posto che era bruciato, per ore e ore. Non scoprii mai il suo nome, ma ricordavo che ai mongoli le città non servivano; essendo nomadi, preferivano i pascoli aperti dove brucavano i loro cavalli e il bestiame.

In guerra, se una città si arrendeva a loro, la lasciavano in pace, limitandosi a nominare un governatore mongolo per la riscossione delle tasse. Se la città opponeva resistenza, la assediavano finché capitolava, poi la distruggevano sistematicamente e gli abitanti venivano uccisi o ridotti al rango di schiavi. La gente del ventesimo secolo pensava che le armi nucleari capaci di radere al suolo una città fossero una novità assoluta; i mongoli radevano al suolo le città a mano… le bruciavano o le demolivano pietra dopo pietra, e in certi casi deviavano addirittura il corso dei fiumi sulle fondamenta annerite. E uccidevano gli abitanti a uno a uno, dopo avere violentato le donne e saccheggiato le case. Certo, torturavano anche chiunque sembrasse abbastanza ricco da avere dell’oro o altri tesori nascosti. Rispetto a quel che vidi coi miei occhi delle conquiste barbare, le armi nucleari almeno avevano il pregio di essere rapide e impersonali.

L’accampamento mongolo era enorme, anche nella luce tremula dei falò. Tende e yurte di feltro, simili a tende indiane montate su carri, si estendevano per acri e acri. Migliaia di cavalli sbuffavano e nitrivano in grandi recinti di corda. Il loro odore arrivava a chilometri di distanza. Le donne cucinavano davanti a gran parte delle tende, in pentoloni neri. Del fumo si levava dai buchi aerei di quasi tutte le yurte, indicando una forma primitiva di riscaldamento centrale.