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I guerrieri mi guidarono attraverso quelli che sembravano chilometri di campo, in un labirinto di tende e yurte disposte apparentemente a casaccio. Ma sapevano dove erano diretti. D’un tratto vidi un ampio spazio aperto, circondato da guardie armate. I fuochi traevano luccichii dai loro elmi d’acciaio e dall’elsa ingemmata delle scimitarre. I miei catturatori si arrestarono. Il capo smontò e parlò rapidamente a una delle guardie. Questi mi lanciò un’occhiata incredula, ma annuì, e il capo del drappello saltò in sella sorridendo. I sei guerrieri ripartirono al galoppo, felici di essersi liberati della responsabilità del loro strano prigioniero.

La guardia evidentemente era un ufficiale abituato ad impartire ordini eseguiti all’istante.

— Mi hanno detto che parli la lingua del Gobi — esordì. Era anziano, aveva le tempie sfumate di grigio, e come i cavalieri mi arrivava sì e no alla spalla. Anche se la sua faccia non era deturpata, sul dorso della mano destra aveva una cicatrice violacea che scompariva sotto il polsino di cuoio della tunica. Aveva una voce squillante, tenorile.

— Capisco le tue parole — risposi.

— Ti chiami Orion; vieni da dietro le montagne dell’Ovest, e sei un emissario inviato a fare atto di sottomissione al Gran Khan.

— Sono stato inviato qui per vedere il Khan, è vero.

Mi guardò sdegnoso. — Non hai doni per lui.

— I doni che porto sono qui. — Mi battei sulla tempia. Poi notando il sorrisetto che gli arricciava le labbra mi resi conto di trovarmi di fronte a un individuo che prendeva tutto alla lettera, e aggiunsi: — Sono doni di saggezza e conoscenza, non gioielli o perle.

Parve quasi deluso. Probabilmente gli sarebbe piaciuto spaccarmi il cranio in cerca di tesori nascosti.

Scuotendo il capo, disse: — Non puoi presentarti all’Orkhon conciato come un mendicante. Vieni con me.

Mentre mi apprestavo a seguirlo, dissi: — Non mangio da… da parecchi giorni. — Di certo non potevo dire che ero a digiuno da otto secoli.

Era il tipico ufficiale inferiore di qualsiasi esercito: tutto lo contrariava, tranne certe cose importanti che lo facevano arrabbiare. Borbottando, mi portò accanto a un fuoco e ordinò alla donna seduta di darmi da mangiare. Trangugiai una ciotola di stufato bollente dall’aria poco invitante, e lo innaffiai con latte acidulo. Quando ebbi finito, la guardia tornò e scaricò a terra una bracciata di indumenti. Riconoscente, mi infilai un paio di calzoni larghi, una camicia ruvida stretta di spalle e una giubba di pelle.

La donna al paiolo, una vecchia sdentata, mi osservò e rise. — Questi vestiti sono troppo piccoli. E non troverai mai stivali abbastanza grandi per i suoi piedi.

La guardia sbuffò. — È un problema suo, non mio.

Era vero. Ero più alto e più grosso di tutti gli asiatici visti finora. I pantaloni che mi aveva dato erano appartenuti evidentemente a un uomo grasso; erano più che abbondanti, però mi arrivavano di poco sotto al ginocchio. La vecchia aveva ragione; probabilmente nell’accampamento non c’erano stivali della mia misura. Comunque, non m’importava. Avevo i sandali, e i miei nuovi indumenti erano caldi, anche se a giudicare dal prurito e dagli zampettii che sentivo non dovevo essere il loro unico occupante. Inoltre, lo stufato della vecchia mi aveva rimesso in sesto. Ero pronto per affrontare il Khan.

Per oltre un’ora passai da una squadra di guardie alla successiva, venni interrogato brevemente da un nuovo ufficiale ogni volta, prima di ricevere il permesso di proseguire. Ormai mi ero reso conto che l’accampamento era formato da due campi separati, uno all’interno dell’altro. Al centro della caotica città riservata ai guerrieri e alle bestie c’era il campo vero e proprio del capo mongolo: l’ordu, come lo chiamavano loro, una tendopoli dove alloggiavano lo stato maggiore e la guardia reale. E al centro dell’ordu, l’alloggio dell’Orkhon, una tenda enorme di seta bianca ornata di stendardi e illuminata da falò colossali.

Mi avvicinai alla sontuosa tenda centrale stretto tra due ufficiali che portavano sulle uniformi una quantità d’oro pari almeno a tutto l’acciaio che avevano addosso. Alle mie spalle marciava una mezza dozzina di guerrieri. Passammo tra i due grandi fuochi che ardevano nella notte davanti all’ingresso. In seguito venni a sapere che tutti gli stranieri venivano fatti passare tra quei fuochi, in base alla credenza superstiziosa secondo cui il calore avrebbe bruciato i demoni che lo straniero poteva annidare dentro di sé.

All’ingresso ci fermammo, e due guardie mi perquisirono frettolosamente in cerca di armi. Erano alti quasi quanto me, ma snelli e forti come gli altri mongoli. Chi vive in sella e supera deserti e montagne diretto in battaglia non ha il tempo di ingrassare.

Finalmente, mi fecero entrare nella tenda. Mi ero aspettato un’ostentazione di splendore orientale, sete e tappeti persiani, calici d’oro tempestati di gemme, e bellissime schiave che danzassero per il conquistatore del mondo. In effetti, l’Orkhon era seduto su un magnifico tappeto. La tenda era drappeggiata di sete e broccati. Gli uomini all’interno bevevano da calici trapuntati di pietre preziose. Quattro donne sedevano sulla sinistra dell’Orkhon, tutte giovani, snelle, e probabilmente molto belle agli occhi dei mongoli. Eppure quella scena non mi diede un’impressione di magnificenza sibaritica; la tenda aveva un’aria di utilità pragmatica. Drappi e tappeti proteggevano dal freddo. I bicchieri d’oro da cui gli uomini bevevano erano il bottino delle loro battaglie; calici o borracce, per loro doveva essere la stessa cosa. Le donne… be’, anche quelle erano preda di guerra.

Non c’era alcuna aria di decadenza nella corte dell’Orkhon. Quelli erano guerrieri, che per il momento si riposavano. Avevano appena bruciato e saccheggiato una città; domani avrebbero ripreso la marcia, puntando sulla città successiva.

— Ti chiami Orion? — disse un orientale alto e magro, in piedi alla destra dell’Orkhon. Sembrava un cinese, più che un mongolo, e indossava una veste di seta che gli scendeva fino ai piedi.

L’ufficiale al mio fianco mi diede una lieve gomitata. Feci un passo avanti. — Sono Orion — dissi.

— Avanza, perché il mio signore Hulagu possa vederti bene.

Mi mossi lentamente verso l’Orkhon, tranquillamente seduto sulle sete e i cuscini che gli appartenevano per diritto di conquista. Era piccolo, più basso della maggior parte degli altri. Aveva capelli lunghi e nerissimi, un corpo temprato e asciutto da guerriero. Non doveva avere più di trentacinque anni. La sua faccia era impassibile, inespressiva, mentre mi fissava.

Il cinese alzò una mano e io mi fermai.

— Sei un emissario dell’Ovest? — mi chiese, la voce leggermente cantilenante nonostante la lingua mongola.

— È vero — risposi.

— Da che regione dell’Ovest? — chiese il mongolo seduto accanto all’Orkhon. Era più anziano, grigio, ma nonostante fosse seduto su cuscini di seta irradiava energia e slancio.

— Da oltre le montagne occidentali e i mari dietro le montagne — risposi.

— Dalla regione dove il terreno è nero e le messi crescono fitte come capelli? — chiese, gli occhi luccicanti.

Probabilmente si riferiva all’Ucraina, il granaio di quella che un giorno sarebbe stata la Russia.

— Da ancor più lontano, mio signore — risposi, pensando allo spazio e al tempo. — Vengo da una terra che dista da qui quanto questo posto dista da Karakorum. Una terra lontanissima.