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Il mongolo sorrise. La distanza era insignificante per lui. — Parlaci della tua terra lontana — disse.

Ma l’Orkhon intervenne. — Basta parlare di terre lontane, Subotai. Il rapporto dice che quest’uomo è un guerriero incredibilmente forte.

Subotai. Il nome di un generale mongolo, ricordai. Invece non riconoscevo il nome che il cinese aveva attribuito all’Orkhon, Hulagu.

Il piccolo generale mi squadrò. — È grande e grosso. Ma pare che sostenga di essere un emissario, non un guerriero.

— Comunque — insisté Hulagu — stando al rapporto, ha battuto un guerriero a cavallo, da terra e disarmato. Poi ha afferrato una freccia con le mani quando il tuman ha cercato di ucciderlo.

Come al solito, il resoconto delle mie imprese era stato gonfiato. Ma evidentemente Hulagu era rimasto colpito e non vedeva l’ora di assistere a una dimostrazione. Ordinò a un arciere di andare all’estremità della tenda, di fronte a me. Gli altri guerrieri e ufficiali sgombrarono l’area alle mie spalle.

— Mio signore — protestai — non ho afferrato una freccia con le mani, l’ho semplicemente deviata…

— Deviala, allora — disse Hulagu, e rivolse un cenno all’arciere.

La freccia si staccò dalla corda, e i miei riflessi entrarono in azione. Il mondo attorno a me rallentò. La freccia volava languida, flettendosi come un delfino che si tuffasse ed emergesse dall’acqua. Sapevo quanta energia cinetica ci fosse in quella freccia; tentare di afferrarla sarebbe stata una pazzia. Così mi scostai leggermente quando mi raggiunse e la allontanai colpendo l’asticella col taglio della mano.

I mongoli restarono a bocca aperta. Subotai sussultò sui cuscini. Hulagu abbozzò un sorrisetto.

Poi fece chiamare un lottatore, un macigno umano dalla testa rasata e il corpo unto. Mi misi a torso nudo, tolsi i sandali, quindi atterrai il mostro con un calcio al ginocchio e un colpo di karaté alla nuca.

Mi inchinai a Hulagu. — Davvero, mio signore, sono un ambasciatore non un guerriero. Combatto solo per difendermi.

L’Orkhon non sembrava soddisfatto. — Non ho mai visto nessuno, guerriero o no, forte e veloce come te.

— Una razza di uomini simili sarebbe un nemico formidabile — commentò assorto Subotai.

Gli altri mongoli mormoravano tra di loro; sembravano d’accordo col generale.

— Sono solo un emissario di una terra remota — dissi, alzando la voce nel chiacchierio. — Cerco il vostro sovrano, Gengis Khan.

Di colpo tutti tacquero. Hulagu mi lancio un’occhiataccia.

— È uno straniero — disse Subotai all’Orkhon. — Non sa che non pronunciamo il nome del Gran Khan.

— Mio nonno è morto da più anni delle dita delle mie mani — fece lentamente Hulagu, minaccioso. — Ora è Ogotai che regna a Karakorum.

— Allora è Ogotai che cerco — replicai.

— Devo mandarti a Karakorum, come emissario di una terra così lontana che non sai nemmeno chi sieda sul trono d’oro? Un uomo capace di arrestare le frecce con le sue mani e di spezzare il collo al campione dei lottatori? Sei un emissario o uno stregone? Cosa vuoi da Ogotai?

“Vorrei saperlo anch’io”, pensai. Dissi a Hulagu: — Le mie istruzioni sono di parlare solo col Gran Khan di Karakorum, mio signore. Sarei infedele al mio sovrano se violassi i miei ordini.

— Secondo me sei uno stregone. O peggio ancora, un assassino.

Abbassai la voce. — Non lo sono, mio signore.

Hulagu tornò a sdraiarsi sui cuscini e tese la destra mentre mi fissava socchiudendo gli occhi. Dalla sua faccia inespressiva era impossibile stabilire se fosse spaventato, preoccupato o arrabbiato. Un uomo dal naso aquilino di un arabo purosangue, e dall’aria nobile e dignitosa, gli porse una coppa d’oro. Hulagu sorseggiò il vino, continuando a scrutarmi con diffidenza.

— Vai — disse infine. — Le guardie ti troveranno un posto per dormire. Per te deciderò domani.

Dal suo tono, avevo la sensazione che invece avesse già deciso.

Ebbi tanta presenza di spirito da inchinarmi. Poi raccolsi la camicia e la giubba e seguii la scorta armata all’esterno della tenda. Diedi un ultimo sguardo a Hulagu; stava fissando la freccia che avevo fatto cadere sul tappeto.

Fu nella fredda oscurità della notte, mentre mi infilavo la camicia piena di pidocchi, che mi assalirono. Erano in sei, come scoprii in seguito. Mi atterrarono, con la camicia aggrovigliata attorno al collo e le braccia, e mi si avventarono addosso. Mi dimenai, scalciai, strappai la camicia, e vidi lo scintillio di una lama di pugnale. Mi difesi accanitamente senza preoccuparmi del fatto che avrei potuto ucciderne qualcuno, mentre gli aggressori mi tempestavano di calci e bastonate. Poi… la fitta lancinante di una lama che mi penetrava ripetutamente nell’addome… il sangue caldo che mi colava sulla pelle. Un ultimo colpo alla testa, e persi i sensi.

Quando mi riebbi, alcuni minuti dopo, gli assalitori erano spanti, e io ero stato trascinato dietro un carro. Vedevo lo spazio libero che circondava il tendone bianco dell’Orkhon, e i due falò davanti all’ingresso. Serrai il più strettamente possibile i vasi sanguigni recisi, e l’emorragia rallentò. Ma non riuscii ad arrestarla del tutto. Ero debolissimo, e sapevo che se fossi svenuto di nuovo avrei perso il controllo dei vasi lacerati morendo dissanguato.

Sentii delle voci nell’oscurità alle mie spalle. Provai a girarmi, ma non appena accennai a voltare la testa fui assalito dalle vertigini e mi accorsi che stavo perdendo conoscenza.

— Qui, mio signore — sussurrò un uomo. — L’hanno trascinato qui.

Sentii un altro uomo che sbuffava. — Dunque, dopo tutto non è un demone. Sanguina come tutti gli uomini.

Fu necessario un atroce sforzo di volontà per girare la testa verso le voci. Intravidi le sagome indistinte di due uomini in piedi contro lo sfondo del cielo illuminato dalla luna.

— Portalo da Agla. Forse la strega riuscirà a strapparlo alla morte.

— Sì, mio signore Subotai.

Le figure si fusero col buio. Le voci si spensero. Mi sembrò di rimanere lì per ore, sforzandomi di non perdere i sensi. Poi arrivarono degli altri uomini che mi sollevarono in modo rude. L’esplosione di dolore mi fece gridare, e sprofondai nel nulla.

In seguito riacquistai un barlume di conoscenza. Avevo caldo, troppo caldo. Mi girava la testa, e i miei occhi si rifiutavano di mettere a fuoco le immagini. Cercai di drizzarmi a sedere, ma non ne avevo la forza.

— No, no… stenditi — intonò sommessa una voce di donna. — Non muoverti.

Sentii il contatto di una mano fresca sulla mia guancia febbricitante. — Dormi… dormi ancora. Agla ti proteggerà dal male. Agla ti guarirà.

La sua voce era ipnotica. Mi rilassai, mi abbandonai a una sensazione di sicurezza cullato dalla forza delle sue parole cantilenanti.

Scoprii successivamente che trascorsero due giorni e due notti prima che riaprissi gli occhi. Ero steso sulla schiena, fissavo le pareti curve di feltro di una yurta. Attraverso il fumaiolo in alto vedevo un cielo azzurro limpido. Avevo il corpo indolenzito e ogni respiro era doloroso, però riuscii a drizzarmi sui gomiti e a esaminarmi l’addome. I pugnali erano penetrati a fondo, ma le ferite stavano già rimarginandosi. Entro qualche giorno non sarebbero rimaste che le cicatrici, e col tempo anche quelle sarebbero scomparse. Arricciai il naso; la tenda puzzava di latte acido e di sudore. I mongoli non erano maniaci della pulizia.

Il lembo di cuoio che copriva l’ingresso della yurta si scostò, e lei entrò.

— Aretha! — esclamai.

Aveva la pelle abbronzata, i capelli intrecciati e raccolti alla mongola. Portava una lunga gonna e un’ampia casacca che mi ricordavano gli indumenti di daino della vecchia frontiera americana. Dal collo le penzolavano collane di conchiglie e ossa, e alla cintura erano appesi amuleti e borse.