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Ma riconobbi subito quell’incantevole viso da dea, i suoi lucenti capelli neri, quegli occhi grigi in cui un uomo avrebbe potuto smarrirsi.

— Aretha — ripetei, la voce rotta per l’emozione di trovarla lì, viva.

Lasciò ricadere il lembo della tenda e si avvicinò al pagliericcio su cui giacevo. Inginocchiandosi, mi fisso in silenzio. Il cuore mi batteva forte, impazzito di gioia.

— Sei tornato tra noi — disse infine. Era la voce di Aretha.

— Sei tornata da me — feci io. — Superando tutti questi secoli. Superando la morte stessa.

Aggrottò le sopracciglia. Toccandomi la fronte, disse: — La febbre se n’è andata, eppure parli in modo sconnesso.

— Tu sei Aretha. Ti ho conosciuta in un’epoca e in un posto diversi, lontano da qui…

— Mi chiamo Agla. Mia madre era Agla, e pure sua madre. È il nome che indica una guaritrice, anche se alcuni barbari credono che io sia una strega.

Mi abbandonai sul pagliericcio. Ma quando tesi la mano lei me la prese.

— Sono Orion.

— Sì, lo so. Subotai ti ha portato da me. L’Orkhon, Hulagu, ha cercato di farti uccidere. Ti teme.

— Subotai, no?

Mi sorrise, e di colpo la yurta puzzolente si riempì di sole.

— Gli interessi molto. Mi ha dato ordini precisi. Guarirti o pagare con la vita. Subotai non sa che farsene di quelli che non sono capaci di eseguire i suoi ordini.

— Perché gli interesso?

Invece di rispondere, Agla proseguì. — Quando ti hanno portato nella mia yurta, ero terrorizzata. Ho cercato di nascondere la mia paura a Subotai, ma dalle ferite che ti avevano inferto ero certa che saresti morto prima dell’alba. Sanguinavi tanto!

— Invece sono vivo.

— Non ho mai visto un uomo con simili poteri. Ho potuto fare ben poco per te, a parte lavare le ferite e darti una pozione per alleviare il dolore. Ti sei guarito da solo.

Non riuscivo a togliermi dalla mente che quella fosse Aretha, la donna incontrata di sfuggita nel ventesimo secolo, ricreata lì nel tredicesimo secolo. Ma o non ricordava la sua esistenza precedente (meglio dire successiva) o era davvero una persona diversa, identica in tutto e per tutto a Aretha. Un clone? Possibile? Se Ormazd era capace di farmi passare attraverso l’inferno e la morte con tutti i miei ricordi dell’altra vita intatti, perché Agla non ricordava di essere Aretha?

— Se sapessero che sei guarito da solo, i barbari penserebbero davvero che tu sia uno stregone — proseguì lei.

— Sarebbe un vantaggio per me?

Rabbrividì. — Non direi. Gli stregoni muoiono sul rogo. Vengono bruciati vivi, oppure gli versano argento fuso negli occhi e nelle orecchie.

Fui io ad avere un brivido. — Non conviene farsi la fama di stregone.

— Lo sei?

— No. Non vedi? Sono un uomo, un uomo qualsiasi.

— Non ho mai visto un uomo come te — fece Agla sottovoce.

— Può darsi — ammisi. — Ma quello che faccio non ha nulla di magico né di soprannaturale. Sono semplicemente più forte degli altri uomini.

Agla si rasserenò, felice di convincersi che non ero un essere mostruoso o maligno.

— Quando ho visto la rapidità della tua guarigione, ho detto a Subotai che le tue ferite non erano gravi come pensavo all’inizio.

— Non vuoi assumerti il merito della mia guarigione?

— Dicono che sono una strega, però non lo credono sul serio. Mi sopportano come guaritrice perché hanno bisogno di me. Ma se pensassero che ti ho guarito usando poteri arcani, allora diventerei una strega, e affronterei il fuoco o l’argento fuso.

Restammo un attimo in silenzio, due stranieri nel campo dei barbari. Lei era Aretha, ma non lo sapeva. Come potevo richiamarle alla mente quell’altra vita?

Pensai a Ahriman, e al motivo per cui ero stato portato in quel luogo e in quell’epoca. Forse parlandole di Ahriman avrei smosso la sua memoria assopita.

— C’è un altro uomo, un uomo scuro e pericoloso — iniziai, e le descrissi Ahriman il più dettagliatamente possibile.

Agla scosse il capo, facendo tintinnare le sue collane. — Non ho mai visto un uomo simile.

Doveva essere lì, da qualche parte. Altrimenti, perché Ormazd mi avrebbe mandato? Poi un nuovo pensiero mi colpì… Era stato proprio Ormazd a inviarmi lì? E se fosse stato Ahriman a esiliarmi in quella regione selvaggia, magari a secoli di distanza da dove era necessario il mio intervento?

Ma non ebbi il tempo di riflettere su quell’interrogativo. La tenda si scostò, e il generale mongolo chiamato Subotai fece il suo ingresso.

11

Subotai entrò solo, senza farsi annunciare, senza scorta, e senza alcun timore. Vestito di cuoio consunto, portava un’unica arma, la scimitarra alla cintura. Era snello e vigoroso come gli altri guerrieri; solo il grigio dei suoi capelli intrecciati ne tradiva l’età. È anche se la sua faccia tonda e piatta era impassibile, in quegli occhi scuri scintillavano l’irrequietezza e la smaniosità di un ragazzo.

Agla si inchinò. — Benvenuto nella mia umile yurta, Subotai.

— Sei la guaritrice. Dicono che tu sia una strega.

— Solo perché so guarire mali e ferite che ucciderebbero un guerriero senza il mio aiuto — replicò Agla. Era un po’ più alta del generale, quando si drizzò.

— Ho dei guaritori cinesi che fanno miracoli.

— Non sono miracoli, mio signore. Sono semplicemente il risultato della conoscenza. I tuoi guerrieri sono coraggiosi e molto abili in guerra. Noi guaritori siamo abili in altre arti.

— Compresa la magia? — chiese Subotai. — La divinazione?

Agla sorrise. — No, mio signore. Né magia né profezie. Semplice conoscenza delle erbe e delle pozioni capaci di guarire il corpo.

Subotai sbuffò; lo stesso borbottio che avevo sentito la notte dell’aggressione. Probabilmente significava che lui era soddisfatto che si stesse facendo il possibile in una data situazione.

Rivolgendosi a me, disse: — Pare che tu stia guarendo molto in fretta. Presto sarai di nuovo in piedi.

— Le mie ferite non erano gravi come sembravano — mentii.

— Così pare.

Mi puntellai sui gomiti, e Agla si affrettò a infilarmi un paio di cuscini sotto le reni.

— Qualcuno ha preso gli uomini che mi hanno attaccato?

Subotai si accovacciò sul tappeto accanto al pagliericcio. — No. Si sono dileguati nella notte.

— Dunque sono ancora nell’accampamento, pronti ad aggredirmi ancora.

— Ne dubito. Sei sotto la mia protezione.

Piegai leggermente il capo. — Grazie, signore Subotai. — Stavo per chiedergli come mai avesse deciso di prendermi sotto la sua ala, ma lui parlò per primo.

— A volte un uomo di elevata posizione… diciamo, il capo di un clan guerriero come Hulagu… deve affrontare un problema spinoso. In certe occasioni, questo capo può augurarsi che il problema sparisca. Altri uomini, fedeli a questo capo, possono interpretare erroneamente le parole del capo e arrecare danno a colui che è causa del problema. Capisci?

Corrugai la fronte. — Ma che problema rappresento io per Hulagu?

— Ho detto forse che stavo parlando di Hulagu? O di te?

— No. Non l’hai detto.

Subotai annuì, contento che capissi la delicatezza della situazione. — Comunque, tu stesso sei un ottimo esempio di quello a cui mi riferisco. Appari dal nulla; sei chiaramente uno straniero, eppure parli la nostra lingua. Dici di essere l’emissario di una terra lontana, eppure sei forte come dieci guerrieri. Insisti che devi vedere il Gran Khan a Karakorum. Eppure, Hulagu teme che tu non sia affatto un emissario, ma un assassino inviato ad uccidere suo zio.