— Assassino? — ripetei confuso. — Ma perché…
Il piccolo generale mi zittì con un cenno. — È vero che vieni da una terra lontana a ovest di qui?
— Sì. — Sapevo che per i mongoli la menzogna era il crimine più odioso. Come molti popoli nomadi forgiati dal deserto, la loro esistenza dipendeva dall’ospitalità e dall’onestà reciproca.
Subotai si chinò in avanti. — Anni fa ho condotto i miei uomini a ovest del più grande di due mari interni, in una regione dove la terra è nera come pece e tanto fertile che il grano cresce più alto di un uomo.
— L’Ucraina — dissi, riflettendo a voce alta.
— Là gli uomini avevano la pelle rosa, come la tua.
Guardai Agla, accovacciata immobile e silenziosa ai piedi del pagliericcio.
— È vero — dissi. — Là vivono uomini col mio stesso colore di pelle, e anche in tutti i tenitori che vanno fino al grande mare dell’Ovest.
— Là a ovest ci sono regni che nessun mongolo ha mai visto — disse Subotai, mentre la smania cominciava a incrinare la sua maschera impassibile. — Regni molto ricchi e potenti.
— Ci sono regni all’Ovest — ammisi. — I russi e i polacchi, e ancora più a ovest, gli ungheresi, i germani e i franchi. E al di là di quelle terre, su un’isola vasta come il Gobi, ci sono i britanni.
— Vieni da quel regno?
Scossi il capo. — Da ancora più in là. Dalle rive di un mare grande come la distanza che c’è tra questo posto e Karakorum.
Subotai si drizzò, riflettendo, cercando di immaginare una simile distesa d’acqua. Dalle informazioni frammentarie captate finora sul posto e convinto che fossimo accampati in qualche angolo della Persia, avevo calcolato che ci trovassimo a un paio di migliaia di chilometri dalla capitale mongola, Karakorum, ai margini settentrionali del deserto dei Gobi.
— Ti ho preso sotto la mia protezione — disse infine Subotai — perché credo che tu dica la verità. Voglio sapere tutto quello che sai di quei regni dell’Ovest… le loro città, gli eserciti, la forza e il valore dei loro guerrieri.
Agla mi rivolse un cenno impercettibile, informandomi che sarebbe stato un errore fatale respingere la richiesta di Subotai o mostrare reticenza.
Il generale non pensò nemmeno che potessi oppormi al suo volere e proseguì: — Però prima devi convincermi che i timori di Hulagu sono infondati. Perché vuoi vedere il Gran Khan? Non hai doni con te, simboli di omaggio. Hai detto a Hulagu di non essere stato inviato a far atto di sottomissione al nostro regno. Che messaggio hai per Ogotai?
Esitai. Non avevo nessun messaggio, naturalmente. Avevo solo dichiarato su due piedi di essere un emissario per evitare di essere ucciso all’istante.
Subotai si drizzò ulteriormente, e la sua voce divenne dura come il ferro. — Ho trascorso la mia vita servendo i Gran Khan, Ogotai e suo padre, il Guerriero Perfetto il cui nome tutti i mongoli venerano. Loro si sono fidati di me, e io non li ho mai delusi.
I sottintesi erano chiari. Se Gengis Khan si fidava di quest’uomo, chi ero io per esitare?
Lentamente, lavorando con la mente a pieno ritmo, dissi: — Sono venuto per mettere in guardia Ogotai e avvisarlo di un male che potrebbe distruggere lui e l’intero impero mongolo.
Lo sguardo di Subotai mi trapassò, quasi volesse mettere a nudo la verità. — Di che male si tratta?
— C’è un uomo, un uomo diverso da tutti gli altri, un uomo oscuro con occhi che ardono d’odio…
— Ahriman — disse il generale.
— Lo conosci? — Restai senza fiato.
— È stato lui a profetizzare la nostra vittoria su Jelal-ed-Din, a dire a Hulagu che Hulagu conquisterà Bagdad e schiaccerà definitivamente la potenza del Califfo.
Chiusi gli occhi un istante, ricordando le storie di Haroun al-Raschid e la favolosa Bagdad delle Mille e Una Notte. Tutto cancellato dalla marea mongola, il fiore dell’Islam annientato dalla crudele forza distruttiva dei mongoli. Città bruciate, giardini calpestati dagli zoccoli dei robusti cavalli dei Gobi, milioni di persone massacrate, un’intera civiltà distrutta. Mentre i cavalieri d’Europa combattevano le loro scaramucce contro l’Islam in Spagna e in Terrasanta, gli invasori mongoli stavano radendo al suolo il cuore dell’islamismo, trasformando i giardini irrigati dell’antica pianura di Shinar in un deserto permanente.
— Ahriman è malvagio — dissi a Subotai. — Porterà distruzione ai mongoli.
Il generale non diede segno di panico. Né di credermi. — Ahriman finora ci ha portato fortuna e vittorie.
— È qui al campo, allora? — Forse erano stati gli uomini di Ahriman a cercare di uccidermi, non servi zelanti dell’Orkhon Hulagu.
— No — rispose Subotai. — È partito due settimane fa.
— Dov’è andato? — Temevo di conoscere già la risposta.
Infatti… — Come te, anche lui voleva andare a Karakorum per vedere il Gran Khan.
Un’improvvisa ondata di forza si agitò in me. — Ed è partito due settimane fa? Devo raggiungerlo.
— Perché? — chiese Subotai.
— Te l’ho detto. È pericoloso. Devo avvertire il Gran Khan perché si guardi da lui.
Il generale si tirò la punta dei baffi, l’unico cenno di incertezza che avessi notato in lui. Mi girai verso Agla, che era rimasta immobile durante tutta la conversazione. Stava fissando Subotai, aspettando che prendesse qualche decisione.
— Ti manderò a Karakorum — disse infine Subotai. — Sotto la mia protezione personale.
— Non può ancora viaggiare — intervenne Agla. — Le ferite non si sono ancora rimarginate bene.
— Posso viaggiare — dissi. — Starò benissimo.
Subotai alzò una mano. — Rimarrai al campo finché la nostra guaritrice non dirà che puoi partire. E nel frattempo io verrò da te ogni giorno. Mi dirai tutto quello che sai sui regni dell’Ovest. È necessario che io sappia.
Prima che potessi aprir bocca, si alzò… con una lieve rigidezza. Solo allora mi resi conto che doveva avere una sessantina d’anni, gran parte dei quali passati in sella, a vincere battaglie e distruggere città.
Quando fu uscito, fissai Agla accigliato. — Devo partire subito. Non posso permettere ad Ahriman di arrivare a Karakorum dal Gran Khan.
— Perché?
Non c’era modo di spiegarglielo. — Devo fare così. Ecco tutto.
— Ma come può quest’uomo essere tanto pericoloso?
— Non lo so. Ma è molto pericoloso, e il mio compito è quello di bloccarlo.
Agla scosse la testa. — Subotai non ti lascerà andare finché non gli avrai raccontato tutto quello che vuole sapere. E nemmeno io voglio che tu parta.
— Hai paura che la tua fama di guaritrice ne risenta, se parto?
— No. Io… voglio che tu stia con me.
Tesi le mani, e lei si avvicinò e lasciò che l’abbracciassi. La strinsi piano, e lei mi appoggiò la testa alla spalla. Sentii il profumo dei suoi capelli… pulito, naturale e assolutamente femminile.
— Com’è che mi hai chiamata — sussurrò. — L’altro nome che hai detto che avrei?
— Non importa. È passato.
— Qual era?
— Aretha.
— C’è stata una donna chiamata così? L’amavi?
Respirai a fondo, assaporando il piacere del suo corpo morbido contro il mio. — La conoscevo appena… ma, sì, l’amavo. Quindicimila chilometri da qui, e quasi ottocento anni… l’amavo.
— Mi somigliava molto?
— Sei la stessa donna, Agla. Non so come, o perché, ma tu e lei siete la stessa persona.
— Mi ami, allora?
— Certo — risposi senza esitare. — Ti ho amata attraverso gli spazi del tempo, dall’inizio del mondo, e ti amerò finché il mondo si ridurrà in polvere.
Alzò il viso, e io la baciai.