Выбрать главу

— Anch’io ti amo, forte guerriero. Ti amo da una vita. Era una vita che ti aspettavo, e adesso che ti ho trovato, non ti lascerò più andare via.

La tenni stretta e sentii il battito dei nostri cuori. Dentro di me, però, sapevo che Ahriman era in marcia diretto a Karakorum, dove dovevo recarmi anch’io, e che aveva vissuto in questo accampamento, anche se Agla aveva detto di non averlo mai visto.

12

Per tre giorni dissi a Subotai tutto quello che sapevo dell’Europa del tredicesimo secolo, e gradualmente mi resi conto che il suo interesse non era né accademico né estetico, bensì strettamente pragmatico. Il generale che aveva guidato gli eserciti del Khan dalle distese ventose del Gobi, attraverso le steppe, fino all’Ucraina, intendeva ora spingersi ancor più a ovest, imperversare in tutta l’Europa e piantare lo stendardo dei mongoli sulle rive del grande oceano che mai aveva visto.

— Perché? — gli chiesi infine. — Appartieni già a un impero che va dal Catai al Mar Caspio. Presto Hulagu conquisterà Bagdad e Gerusalemme. Perché spingersi oltre?

Subotai era un uomo semplice e schietto, incapace di fingere. Potevo immaginare che risposta avrei ottenuto rivolgendo quella domanda a Cesare Augusto, Napoleone, Hitler, o qualsiasi altro conquistatore civilizzato. Ma mentre sedeva nella sua tenda, con il suo corpo snello ma un po’ rigido, in calzoni di pelle, casacca, e panciotto di cuoio borchiato, Subotai mi diede la risposta nuda e cruda di un barbaro.

— Da quando in gioventù ho giurato fedeltà al vecchio Gran Khan, il Guerriero Perfetto, ho guidato eserciti alla conquista, è vero. Ma sempre per lui o per i suoi figli. Ora sono vecchio e non mi restano più molti anni. Ho visto molte regioni del mondo, ma ce ne sono ancora molte che non ho visto. Appartengo all’impero, è vero, pero nessuna parte dell’impero mi appartiene. I figli e i nipoti del Guerriero Perfetto hanno ereditato le terre che io ho aiutato a conquistare. Adesso vorrei avere terre mie, così che i miei figli abbiano un posto all’interno dell’impero uguale a quello di Hulagu e Kubilai e gli altri nipoti del vecchio Gran Khan.

Non c’era traccia di amarezza nelle sue parole, né invidia o rabbia. Stava semplicemente illustrando la situazione con chiarezza, e in maniera più sintetica di quanto non avrebbe fatto qualsiasi politicante.

— Il Gran Khan sul trono attuale, Ogotai, non ti darebbe una parte dell’impero, perché tu possa passarla poi ai tuoi figli?

— Certo, lo farebbe, se glielo chiedessi. Ma non è il sistema migliore, questo. Meglio trovare nuove terre e aggiungerle all’impero.

Credevo di capire. — Così non ci saranno gelosie e conflitti tra gli Orkhon, come Hulagu.

Subotai sospirò pazientemente. — Tra noi non ci sono gelosie e conflitti. Ci atteniamo alla Yassa, la legge del Gran Khan. Non siamo cani, non lottiamo tra noi per un osso.

— Capisco — dissi, piegando la testa per mostrargli che non intendevo offenderlo.

— È necessario aggiungere nuove terre — continuò Subotai, stranamente disposto a spiegare certe cose a un estraneo. — Qui sta la saggezza del vecchio Gran Khan. È per questo che tra noi non ci sono gelosie e conflitti. La Yassa che lui ci ha dato ci dice di assoggettare altri popoli. Finché lo faremo, non lotteremo tra noi.

Cominciavo a capire. L’impero mongolo era una creazione di Gengis Khan, riverito a tal punto che quei guerrieri non osavano pronunciarne il nome. Era un modello di stabilità sociale dinamica: finché fosse continuata l’espansione dell’impero, il suo nucleo sarebbe rimasto stabile. Ecco perché Subotai doveva spingersi verso ovest; l’Est, fino alla costa del Pacifico, era già sotto il dominio dei mongoli.

— E poi — aggiunse Subotai, quasi mi avesse letto nel pensiero — Mi piace vedere nuove terre, strani paesi. Sono impaziente di vedere l’oceano occidentale di cui parli, e le terre al di là dell’oceano.

Era difficile non ammirarlo. — Ma, generale, i regni d’Europa raduneranno grandi eserciti per contrastarti… migliaia di cavalieri e decine di migliaia di soldati…

Subotai rise, un raro allentamento della sua autodisciplina. — Non cercare di spaventarmi, Orion. Non sarebbe la prima volta che vedo degli eserciti contro di me. Non ti ho mai raccontato la storia della Battaglia dei Carri? O della nostra prima battaglia contro l’esercito di Kharesm?

E via di questo passo per tre giorni fino a tarda ora. In modo semplice e diretto, Subotai stava raccogliendo informazioni per la sua prossima campagna. Sentivo la coscienza rimordermi nel fornirgli le informazioni di cui aveva bisogno, ma dai miei ricordi del ventesimo secolo sapevo che i mongoli non avevano conquistato l’Europa.

Mentre il nostro terzo incontro stava concludendosi verso mezzanotte, gli dissi che adesso sapeva tutto quello che io sapevo sull’Europa, e che era inutile trattenermi oltre.

— Ahriman ha un grosso vantaggio su di me, e arriverà a Karakorum a compiere i suoi malefici prima che io possa fermarlo.

Subotai non sembrava convinto delle doti maligne di Ahriman, ma da quel soldato pratico che era, sembrava più che disposto a lasciare che Ahriman e io combattessimo la nostra battaglia privata.

— Ahriman sta raggiungendo Karakorum con una carovana di preziosi — mi disse. — Carovana che è veloce quanto il suo cammello più carico. Sei un bravo cavaliere?

A quanto mi risultava, non ero mai stato in sella. Però avevo visto gli altri cavalcare, e sapevo che avrei potuto imparare tutto in un giorno, forse meno.

— So andare a cavallo — risposi.

— Bene. Possiamo mandarti a Karakorum con lo yam.

Non conoscevo il termine. Subotai mi spiegò che si trattava di un sistema di corrieri postali a cavallo, circa come il Pony Express che sarebbe stato reinventato nell’Ovest americano sei secoli e mezzo più tardi. Nonostante fossero barbari, i mongoli disponevano di un apparato postale che era la più efficiente rete di comunicazioni del mondo. E la più sicura. La legge mongola, la Yassa, reggeva l’impero con una morsa d’acciaio. Si diceva che una vergine con un carico d’oro avrebbe potuto andare da un capo all’altro dell’impero senza essere molestata. Ed era vero, scoprii. Quando tornai nella yurta di Agla e la svegliai per dirle che sarei partito la mattina dopo, lei annuì assonnata e alzò la coperta imbottita.

— Dormi, allora — mi invitò. — Ci attende una giornata molto lunga, domani.

— Ci attende?

— Vengo a Karakorum con te, naturalmente.

— Ma… Hulagu ti lascerà partire?

Se non fosse stata intontita dal sonno probabilmente si sarebbe indignata. — Non sono una schiava. Posso andare dove voglio.

— Sarà un viaggio duro. Useremo il corriere postale. Saremo a cavallo tutto il giorno, per settimane.

Lei sorrise, chiuse gli occhi e mormorò: — Per questo, sono imbottita meglio di te. — E si riaddormentò.

Fu un viaggio estenuante. Nel ventesimo secolo, chi attraversava l’Asia da Mosca a Vladivostok con la Transiberiana si considerava un viaggiatore rotto a tutti i disagi. Agla e io percorremmo la stessa distanza a cavallo, lungo un itinerario più difficile, attraversando deserti e valichi innevati mentre superavamo il Tetto del Mondo e sbucavamo nella distesa sconfinata del Gobi. Da soli, saremmo morti in meno di una settimana. Ma l’intero percorso era segnato da una catena di stazioni mongole, ognuna a un giorno dall’altra, dove trovavamo cibo caldo, acqua, e cavalli freschi. Le stazioni erano affidate a guerrieri vecchi o storpi, aiutati di solito da alcuni giovani del posto che badavano ai recinti. Era un monumento alla potenza dei mongoli il fatto che nessuno attaccasse mai quelle stazioni. Apparentemente, nell’impero non c’erano movimenti di resistenza clandestini. Probabilmente, ricordando i massacri che accompagnavano le armate dei mongoli, la gente preferiva restare passiva. Ma forse erano le leggi della Yassa e la tolleranza dei mongoli nei territori conquistati a garantire la pace interna.