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Avevo sperato di raggiungere la carovana di Ahriman, ma generalmente il corriere postale usava un percorso diverso, più diretto. Un cavallo con un uomo esperto in sella poteva affrontare tratti che una carovana di cammelli non avrebbe mai osato superare. Di tanto in tanto incrociavamo la vecchia pista carovaniera. Anche a chilometri di distanza si vedeva il sentiero tracciato nel corso dei secoli da buoi, cammelli e asini. Incontrammo due carovane, lunghe file di bestie da soma cariche di tesori sottratti all’Ovest, che avanzavano pazientemente verso Karakorum. La scorta era formata solo da un manipolo di guardie. Nessuno lucido di mente attaccava una carovana mongola; intere tribù avrebbero potuto essere sterminate per un crimine simile.

Domandai, cercai Ahriman, ma non era in nessuna delle due carovane. Il che significava che purtroppo aveva un vantaggio più grande di quanto avevo temuto.

Una notte, dopo essere scesi dai valichi del Tien Shan ed esserci sistemati nella capanna che fungeva da alloggio forestieri di una stazione postale, chiesi ad Agla come mai avesse negato di aver visto Ahriman nell’accampamento di Hulagu.

— Non l’ho visto — disse lei.

— Però sapevi che c’era, vero? Anche in un campo grande come quello di Hulagu, la presenza di un individuo del genere deve essere nota a tutti.

— Sì — ammise. — Sapevo che c’era.

— Allora perché mi hai mentito?

Agla drizzò il mento. — Non ti ho mentito. Tu mi hai chiesto se l’avessi visto, e io ti ho detto la verità: non l’ho mai visto. Il Tenebroso stava nella tenda di Subotai. Non l’ho mai visto, io.

— Ma sapevi che c’era.

— E sapevo che aveva predetto a Hulagu che saresti arrivato al campo, che eri un demone e sarebbe stato meglio ucciderti — disse Agla, senza vergognarsi, senza sentirsi in colpa. — Sapevo che per poco non ti avevano ucciso, infatti. E sapevo che finché fossi rimasto sotto la protezione, di Subotai non ti avrebbero più fatto del male. Secondo te, chi ti ha trovato, agonizzante nella polvere dietro il letamaio? Chi ha portato da te Subotai, convincendolo che eri troppo prezioso per morire?

— Tu?

— Sì.

— Perché? Non sapevi chi fossi, né perché fossi venuto…

— Sapevo abbastanza — disse Agla, gli occhi grigi che brillavano nel riflesso del fuoco che crepitava. — Avevo sentito che uno straniero molto potente era stato al campo, che Hulagu era tanto intimorito da dar retta agli avvertimenti del Tenebroso. Sapevo che eri l’uomo che aspettavo da una vita.

— Così mi hai salvato e mi hai protetto finché non mi sono rimesso.

— E ti proteggerò con tutte le mie forze quando raggiungeremo la corte di Ogotai.

— Ci sarà Ahriman, là — dissi.

— Sì. E cercherà nuovamente di ucciderti.

13

Karakorum era uno strano miscuglio di squallore e splendore, di semplicità barbara e di complessità bizantina.

Durante l’epoca di Gengis Khan quella città di tende e yurte era diventata la capitale del mondo, il luogo in cui la nobiltà assoggettata della Cina e dell’Islam veniva a servire in schiavitù, in cui i tesori di tutta l’Asia si riversavano nelle mani di uomini che avevano iniziato la loro esistenza come nomadi.

Finché era rimasto in vita, Gengis Khan aveva proibito la costruzione di strutture permanenti nella sua capitale. Le tende, i carri e le yurte andavano più che bene per lui, in quel campo vicino a un fiume limpido, dove cresceva della buona erba che sostentava il suo tesoro più prezioso… le mandrie di cavalli che portavano i suoi guerrieri negli angoli più remoti del mondo.

Erano i cavalli a segnare i confini di Karakorum. La capitale mongola era attorniata da enormi recinti contenenti decine di migliaia di piccoli, robusti cavalli del Gobi. I loro nitriti arrivavano a chilometri di distanza. I loro scalpitii sollevavano nubi di polvere che oscuravano l’orizzonte. Mentre ci avvicinavamo alla capitale in una gelida mattina, quella polvere mi ricordò il fumo e lo smog che caratterizzavano le città industriali del ventesimo secolo.

Ogotai era il Gran Khan, e amministrava aiutato da mandarini cinesi pratici di scrittura e di documenti. Avanzando, Agla e io vedemmo che edifici di fango secco e perfino di pietra stavano sorgendo attorno all’ordu, il padiglione di tende che ospitava il quartier generale del Gran Khan. La maggior parte di quelle nuove costruzioni, appresi quasi subito, erano chiese e templi. I mongoli erano tolleranti verso le religioni, e i sacerdoti d’ogni genere affollavano la città: monaci buddisti nelle loro tuniche color zafferano, iman mussulmani inturbantati, preti cristiani nestoriani, taoisti cinesi vestiti di seta e broccato, e molti altri che non riconobbi.

Fummo fermati dalle guardie di pattuglia nel punto in cui la strada si addentrava nel labirinto di costruzioni della periferia di Karakorum. Un cinese esaminò il documento consegnatomi da Subotai, documento scritto da uno degli aiutanti cinesi del generale, e ordinò a un guerriero di trovarci un alloggio. Il guerriero montò a cavallo e ci guidò in silenzio nel guazzabuglio brulicante della capitale. Carovane di preziosi che scaricavano; uomini e donne che si accalcavano ovunque. Non c’era alcun criterio d’ordine nella disposizione degli edifici, non c’erano strade degne di quel nome, solo sentieri tortuosi di terra battuta. Lì si sentivano parlare tutte le lingue del mondo, e spesso le si sentivano gridare, urlare, mentre i mercanti discutevano il prezzo di generi che andavano da melograni della Cina a lame di Damasco flessibilissime.

Ci diedero una casetta di mattoni a un piano. La porta si affacciava sulla fascia vuota che delimitava l’ordu del Gran Khan. Dalla finestra anteriore si vedevano le tende bianche decorate e i guerrieri che sorvegliavano gli ingressi. Come nell’accampamento di Hulagu, c’erano due falò accesi davanti all’entrata della tenda del Gran Khan. Per tenere lontani gli spiriti maligni.

C’era già uno spinto maligno nella città, ne ero sicuro. Ahriman doveva essere arrivato prima di noi. Chissà se aveva trovato ascolto presso il Gran Khan? Sarei rimasto vittima di un altro tentativo di assassinio, una volta presentatomi a Ogotai?

Nemmeno questi timori riuscirono a tenermi sveglio. Dopo tante settimane di duro cavalcare, Agla e io crollammo sul letto di piume e dormimmo per quasi ventiquattr’ore.

Mi svegliai avvertendo un senso di pericolo.

Aprii gli occhi, nervi e muscoli tesi. Agla dormiva appoggiando la testa alla mia spalla. Senza girarmi, osservai la stanzetta. Non aveva finestre; c’era un’unica porta con una tenda di grani a sinistra del letto, a meno di un metro. Era stato il lieve frusciare di quei grani a svegliarmi.

Trattenni il respiro, ascoltando. Volgevo le spalle alla porta, e non potevo vederla a meno di non voltarmi, e non volevo farlo per paura di mettere in guardia chiunque si trovasse dietro la tenda.

La tenda frusciò ancora e, nel chiarore fioco del mattino, vidi un’ombra grigia scivolare lungo la parete opposta della camera. Poi, un’altra ombra. Due uomini, con l’elmo conico dei guerrieri mongoli. La prima ombra alzò il braccio, e scorsi la lama sottile di un pugnale.

Rotolai sul letto e li colpii contemporaneamente, mandandoli a sbattere contro la parete. Alzandomi dal pavimento prima che potessero riaversi, torsi il polso del primo uomo, disarmandolo. Mentre il pugnale cadeva a terra, colpii violentemente il collo del secondo assassino col taglio della mano. Dietro di me, sentii Agla urlare. Il primo guerriero stava drizzandosi in piedi, estraendo la scimitarra alla cintura. Gli sferrai un pugno al torace e sentii le costole che si spezzavano. Mentre si piegava in avanti, gli mollai una ginocchiata in faccia. Il mongolo rimbalzò contro la parete e scivolò sul pavimento.