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Voltandomi, vidi Agla in piedi sul lato opposto del letto, nuda, un pugnale in mano, le labbra contratte in un ringhio selvaggio.

— Stai bene? — domandammo tutti e due all’unisono. Poi lei rise, scossa, e io respirai a fondo per calmare il battito del cuore.

Agla si avvolse nella trapunta, mentre mi chinavo a esaminare gli aggressori. Morti entrambi. Una scheggia d’osso del naso doveva essere penetrata nel cervello del primo; l’altro aveva il collo rotto.

Agla venne a inginocchiarsi accanto a me. Aveva gli occhi sbarrati.

— Li hai uccisi tutti e due, con le tue sole mani!

Annuii. — Non volevo. Volevo scoprire chi li ha mandati.

— Posso dirtelo io. È stato il Tenebroso.

— Già, lo credo anch’io. Però sarebbe meglio esserne certi.

Un guerriero irruppe nella stanza, la spada sguainata. — Ho sentito un grido! — Poi vide i due cadaveri. Mi guardò, poi tornò a guardare i morti.

Mi aspettavo che si arrabbiasse scoprendo che due suoi compagni mongoli erano stati uccisi da uno straniero, e mi preparai a un altro attacco. Invece, mi fissò meravigliato.

— Sei stato tu?

Annuii.

— Solo? Senza armi?

— Sì — risposi sgarbato. — Adesso toglimeli dai piedi.

Agla intervenne. — Aspetta. Volevi sapere con certezza chi ha mandato questi assassini, no?

Prima che potessi rispondere, si piegò e sollevò una palpebra a una vittima. Fissò l’interno, assorta, rabbrividì leggermente, e richiuse l’occhio del morto. Quindi ripeté la stessa operazione con l’altro uomo. Mentre la osservavo, mi resi conto di essere nudo. Il calore della lotta e della rabbia stava scemando; avevo freddo.

Agla si alzò, stringendosi nella coperta. — È stato il Tenebroso. L’ho visto nei loro occhi.

— Puoi vederlo negli occhi di due morti? — Mi sembrava assurdo.

Ma lei disse solennemente: — Posso vedere tutta la loro vita nei loro occhi. È un dono degli dei.

Non ci credevo. Agla vedeva quello che voleva vedere. Se avesse creduto che gli assassini fossero stati inviati da Hulagu, o dal Gran Khan, o dalla Faccia della Luna, avrebbe dato la colpa a uno dei tre personaggi.

Ma il guerriero le credeva. Strabiliato per le mie doti di combattente e per i poteri di Agla, trascinò i due corpi all’esterno e chiuse la porta, dopo averci ordinato di restare lì in attesa dell’arrivo di un ufficiale.

Barbari che fossero, i mongoli si attenevano rigorosamente alle leggi, e disponevano di un apparato poliziesco uguale a quello di qualsiasi città civilizzata. Anzi, più rapido ed efficiente di molti. Avevamo appena finito di vestirci, quando un ufficiale bussò alla porta ed entrò senza aspettare il nostro permesso.

Mi interrogò, ignorando Agla. Gli raccontai quanto era successo, tralasciando l’esame oculare di Agla.

— Chi può averti mandato degli assassini? — mi chiese. Era preoccupato. Fatti del genere erano rari nella capitale mongola.

Tenni per me la mia opinione. — Non posso saperlo. Siamo arrivati solo ieri.

— Chi sono i tuoi nemici?

Scossi il capo. — Sono uno straniero, vengo da molto lontano. Non pensavo di avere dei nemici qui. Forse mi hanno confuso con un altro.

L’ufficiale non sembrava molto convinto, ma disse: — Forse. Restate qui fino a nuovo ordine. Sarete sorvegliati dai miei uomini.

In pratica eravamo agli arresti domiciliari. Ai mongoli non piacevano certi guai in casa, e intendevano andare in fondo al caso. Due guerrieri si piazzarono davanti alla nostra porta. Dei servi ci portarono cibo e indumenti puliti. Come al solito, non riuscirono a trovare stivali della mia misura. Tenni i sandali. Mi erano stati utili in quelle settimane, anche quando avevo dovuto avvolgerli in pelli e pellicce attraversando i passi del Tien Shan.

— È il Tenebroso — rifletté Agla quando fummo soli. — Cerca la tua morte.

Volle assaggiare il cibo che ci avevano portato, prima di lasciarmelo mangiare. Esaminò addirittura i vestiti in cerca di incantesimi o pozioni nascoste.

— Si può avvelenare un uomo attraverso la pelle — mi avvisò. — So di un impiastro capace di uccidere un guerriero, basta che tocchi per pochi attimi la sua pelle.

Veleni nervini nel tredicesimo secolo? Mi affidai alla sua maggiore conoscenza dell’epoca. La mia attenzione era centrata su un altro argomento. Ero d’accordo con Agla sul fatto che solo Ahriman poteva volermi morto. Ma, perché? Perché ci trovavamo tutti e due lì? La mia missione era quella di ucciderlo, certo. Anche lui era spinto dal medesimo impulso? Eravamo destinati a rincorrerci nel tempo, a giocare una partita eterna preda-predatore per il divertimento di Ormazd e di qualsiasi altro essere divino possibile?

Mi rifiutavo di credere di essere solamente un giocattolo raffinato. Ahriman voleva uccidermi non solo perché gli piaceva farlo, ma anche per impedirmi di sventare i suoi piani. Mirava alla distruzione totale della razza umana, anche se comportava la distruzione della struttura del continuum e il disgregamento dell’intero universo spazio-temporale. Il mio compito era impedirgli di farlo, e per riuscirci definitivamente dovevo per forza uccidere Ahriman.

“Non sono un sicario, non sono un assassino”, mi dissi. “Sono un soldato, che si batte per la vita del genere umano contro un alieno spietato che vorrebbe annientarci. Devo uccidere Ahriman perché solo la sua morte può garantire la sopravvivenza dell’umanità”.

Eppure ero turbato. Per quanto mi sforzassi di convincermi, il nocciolo della questione era sempre quello che Ormazd mi aveva detto nel remoto futuro: trovare Ahriman e ucciderlo.

“Quante volte?” mi chiesi all’improvviso. “Quand’è che un uomo è definitivamente, innegabilmente morto?” Ahriman aveva ucciso Aretha nel ventesimo secolo, eppure Agla era lì al mio fianco, viva. Io stesso ero morto, eppure respiravo ancora, mi muovevo, amavo. Un ciclo senza fine?

Mi abbandonai sul morbido materasso, l’animo troppo stanco per contemplare una caccia eterna, un susseguirsi di morti e assassinii. Agla, avvertendo la mia disperazione, provò a consolarmi.

Poi bussarono alla porta. Colpi educati ma decisi. Tre colpetti distinti.

Andai ad aprire. Era notte, e l’ordu era illuminato dalle fiamme crepitanti dei due falò. La tenda di seta di Ogotai ondeggiava in una brezza che per centinaia di chilometri non incontrava né colline né alberi.

Di fronte a me, un cinese anziano, magro, in una splendida tunica blu e argento. Col suo cappello a punta, era alto quasi quanto me. Aveva i fuochi alle spalle, ed era difficile distinguere i suoi lineamenti.

— Sono Ye Liu Chutsai, consigliere del Gran Khan — disse, con la voce sommessa e acuta di un vecchio. — Posso entrare?

14

Il mandarino rimase pazientemente sulla soglia. Le due guardie mongole erano accovacciate a terra a qualche metro dalla porta, trangugiando la cena da ciotole di legno dopo avere appoggiato lance e archi accanto a se.

— Sì, certo — risposi. — Prego, entra pure.

Il mandarino camminava con tanta scioltezza e leggerezza che sembrava quasi scivolare sul pavimento, sopra un carrello nascosto sotto le sue vesti. Lo presentai ad Agla, che si inchinò e andò ad attizzare il fuoco nel camino.

Ye Liu Chutsai era più vecchio di tutti gli uomini incontrati tra i mongoli. Barba e baffi erano candidi, come il lungo codino che gli scendeva sulla schiena. Si fermò al centro della stanza spoglia, le mani infilate nelle ampie maniche.

Gli indicai l’unica sedia della camera, un oggetto di legno, massiccio e scomodo. — Prego, siediti, signore.

Si sedette. Agla prese due cuscini in camera da letto e li offrì al mandarino. Rifiutò, scuotendo il capo con un sorrisetto, così Agla e io sedemmo ai piedi dell’anziano cinese.