— Tu vieni dall’Ovest — disse Ye Liu Chutsai. — Come pure l’uomo che si chiama Ahriman.
— È qui! — esclamai.
— Lo conosci?
— Sì. È da lui che Ogotai deve guardarsi.
Il mandarino sorrise. — Ahriman ha già avvertito Ogotai di guardarsi da te, l’uomo dalla carnagione chiara e dalla gran forza proveniente da oltre il mare occidentale.
La mia parola contro quella di Ahriman, riflettei. Come sarei riuscito a convincere il…
— C’è dell’altro — aggiunse Ye Liu Chutsai. — Qualcosa che complica il problema.
— Cosa?
— È sorta una minaccia per l’impero.
— Una minaccia? — ripetei.
— Cosa può minacciare un impero che ha conquistato mezzo mondo? — fece Agla.
— Oggi parlando con le guardie hai usato la parola assassino.
— Sì, dopo che quei due uomini hanno cercato di uccidermi.
— Assassino è una parola nuova, qui. Proviene dalla Persia, dove è nato un culto… religioso, forse. È un culto omicida, e i suoi membri sono chiamati assassini. Pare che la parola derivi dal nome persiano di una droga usata da questi uomini: l’hascisc.
— Non capisco cosa c’entri questo con me — dissi.
— L’uomo che dirige questa setta è astuto come mille demoni. Recluta i giovani e promette loro il paradiso, se eseguiranno i suoi ordini. Con l’hascisc, e senza dubbio con altre droghe, mostra loro una visione del paradiso che raggiungeranno una volta liberatisi delle loro spoglie mortali. Non c’è di che stupirsi se i giovani sono pronti a rinunciare alla vita per obbedire ai voleri del loro maestro.
— So di queste droghe — disse Agla. — Sono così potenti che un uomo è disposto a tutto pur di averle.
Ye Liu Chutsai chinò il capo in segno affermativo. — A questi schiavi della droga viene ordinato di uccidere. Anche se sanno che a loro volta saranno uccisi, obbediscono volentieri, convinti di svegliarsi poi in un paradiso eterno.
Non dissi nulla, pur sapendo che solo in apparenza la morte era la fine dell’esistenza.
— In Persia, migliaia di mercanti, di nobili, persino di iman e di principi sono stati… assassinati. Basta che la setta avverta un uomo che la sua ora è scoccata… Il terrore della probabile vittima è così grande da indurla a pagare qualsiasi prezzo pur di placare gli assassini. In questo modo, il culto diventa sempre più ricco e potente.
— In Persia — dissi. La terra di Ahriman e di Ormazd, e del loro antico profeta Zoroastro.
— Il culto si è esteso oltre i confini della Persia — precisò il mandarino. — Tutto l’Islam è in una morsa di terrore. E temo che gli assassini siano giunti fin qui, a Karakorum, per uccidere il Gran Khan.
— Ahriman viene dalla Persia — dissi.
— Lo ammette in tutta sincerità. Però sostiene che anche tu vieni da là. Cosa che tu neghi.
— Per poco, degli assassini non mi hanno ucciso oggi.
Il mandarino si strinse nelle spalle. — Poteva trattarsi di uno stratagemma ingegnoso per sviarci. Quei due non erano mongoli, nonostante il loro abbigliamento. Può darsi che tu li abbia uccisi per allontanare da te i sospetti.
— Non è vero. Loro hanno cercato di uccidermi.
La faccia rugosa del vecchio aveva un’espressione preoccupata. — Voglio crederti, Orion. Però non posso agire ingenuamente. Tu o Ahriman… Sono convinto che uno di voi sia un assassino, forse addirittura il capo stesso della setta, l’uomo noto ai persiani solo come il Veglio delle Montagne.
— Come posso convincerti…?
Ye Liu Chutsai scosse il capo. — Dinanzi a un problema del genere, i mongoli agirebbero con semplicità stupefacente… Ucciderebbero sia te sia Ahriman, forse anche te, mia bella signora, e risolverebbero tutto. Io, con la mia coscienza di persona civile, cercherò di stabilire chi di voi sia l’assassino, e chi l’innocente.
— Dunque non ho nulla da temere — dissi, tutt’altro che tranquillo.
— Non da parte mia. Non ancora. — Il mandarino esitò, quindi aggiunse: — Ma Ogotai non è un uomo paziente. Forse deciderà di ricorrere al sistema mongolo per sbarazzarsi definitivamente del problema.
15
Agla e io non eravamo esattamente prigionieri, però in qualsiasi parte di Karakorum andassimo, i due guerrieri mongoli ci seguivano. Ye Liu Chutsai diceva che erano una scorta per proteggerci, ma mi facevano sentire a disagio. Giorno e notte, erano sempre a pochi passi da noi. Scoprii che la disciplina mongola era inflessibile: quegli uomini ci avrebbero sorvegliato finché non avessero ricevuto l’ordine di smettere. Se gli fossimo sfuggiti di vista, sarebbero stati uccisi. Se uno di loro fosse morto durante la sorveglianza, il figlio avrebbe preso il suo posto, ammesso che fosse abbastanza cresciuto da essere un guerriero. In caso contrario, sarebbe subentrato il parente maschio più prossimo.
Potevamo muoverci liberamente nella città, fatta eccezione per l’unico posto dove volevo andare… il padiglione del Gran Khan, l’ordu di tende che vedevo ogni mattina dalla porta del nostro alloggio. Ye Liu Chutsai non mi permetteva di vedere il Khan né di superare la fascia spoglia che delimitava l’ordu. Il mandarino temeva che potessi essere un assassino, o addirittura il capo della setta di assassini. Così per me non c’era verso di incontrare il Gran Khan, mentre gli intrighi di corte cinesi si insinuavano nel cuore dell’impero mongolo.
Però, nulla mi impediva di cercare Ahriman. Per giorni interi Agla e io vagammo nei viottoli rumorosi che serpeggiavano tra yurte ed edifici di pietra e di fango, alla ricerca del Tenebroso. Karakorum era una metropoli costruita a casaccio, senza piani precisi, senza servizi. I mongoli la consideravano soltanto un accampamento come tanti, solamente più grande di quelli abituali. Non capivano le differenze derivanti da un cambiamento di dimensioni. Un campo di nomadi di mille famiglie, con tende, cavalli e bestiame, poteva vivere accanto a un fiume per settimane prima di doversi trasferire. Ma una città di diecimila famiglie, o centomila, che rimanesse fissa in un posto era al di là delle capacità dei mongoli.
L’igiene era inesistente. Per quei nomadi che si ungevano di grasso animale per proteggersi dal gelo invernale, il bagno era una pratica quasi sconosciuta. L’immondizia e i rifiuti corporei venivano semplicemente scaricati sul terreno, di solito dietro le tende. L’acqua che gli schiavi portavano in città proveniva dallo stesso fiume in cui riversavano i rigagnoli di liquame. Un sistema che poteva anche funzionare per un campo temporaneo; per un insediamento permanente, però significava inevitabilmente malattie. Mi chiesi tra quanto tempo Karakorum sarebbe stata spazzata via da un’epidemia di tifo. Forse era quella la fine predestinata dell’impero mongolo.
Il rumore di quei viottoli faceva concorrenza con la Manhattan del ventesimo secolo. Tutti come minimo sbraitavano. I carri scricchiolavano e gemevano sotto carichi pesantissimi. I cavalieri passavano scalpitando, mettendo in fuga mercanti, donne, bambini… chiunque sbarrasse loro la strada. Pioveva di rado, ma quando pioveva, diluviava. Ogni bufera abbatteva una quantità enorme dei fragili edifici di fango, anche se le yurte di feltro e le grandi tende dell’ordu resistevano al vento e alla pioggia meglio delle strutture permanenti. Dopo ogni temporale, c’erano pozzanghere ovunque, in cui si moltiplicavano zanzare grosse come passeri.
Nessuno di quelli con cui parlai ammise di sapere della presenza di Ahriman. Ye Liu Chutsai l’aveva visto prima d’incontrarmi, e mi aveva detto che Ahriman aveva perfino parlato con Ogotai prima del mio arrivo. Però il mandarino non voleva fornirmi alcun indizio che mi aiutasse a trovarlo.
Così, giorno dopo giorno, Agla ed io con la nostra fedele scorta ci aggirammo nella capitale mongola, avanzando a spintoni tra la ressa, cercando un uomo in una città che doveva contare quasi un milione di abitanti. Provai tutte le chiese, dalla capanna fetida di alcuni eremiti cristiani all’aurea magnificenza di un tempio buddista.