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Dopo quasi una settimana di ricerche, finalmente individuai quello che cercavo: un piccolo, tozzo edificio senza finestre, di pietra grigia, sul limitare della città, vicino ai recinti, dove il tanfo degli animali e il ronzio delle mosche erano insopportabili.

Il viso di Agla mostrò il disgusto che provava per quel posto. — Qui non c’è nulla… solo puzza e sporcizia.

— E Ahriman. — Indicai la costruzione grigia.

— Là?

— Ne sono sicuro. — Rivolgendomi alle guardie, chiesi:— Che edificio è, quello?

Si guardarono in faccia prima di scrollare le spalle fingendo di non sapere. Forse avevano l’ordine di tenermi lontano da Ahriman. Forse per paura non volevano entrare nel territorio del Tenebroso. Non aveva importanza. Mi incamminai verso la porta, l’unica apertura visibile dell’edificio.

— È meglio non entrare là dentro — disse una guardia. Era la frase più lunga che avessi mai sentito dalla sua bocca.

— Potete aspettare fuori — replicai senza fermarmi.

— Aspetta. — La guardia si affrettò a pararmisi di fronte.

— Io entro. Non cercate di fermarmi.

Chiaramente, l’idea non gli piaceva, però non aveva neppure intenzione di sfidarmi. Mandò il compagno sul retro, a controllare che non ci fossero altri ingressi. Non ce n’erano. Soddisfatto di poter sorvegliare quell’unica porta, si fece da parte.

— Devi chiamare se c’è pericolo — disse.

Rispose Agla. — Non temere, io chiamerò. — Ma il guerriero non prestò attenzione a una donna.

Dovetti chinarmi per varcare la soglia bassa. All’interno, una camera buia, tetra. Agla si strinse a me.

— Non vedo nulla — mormorò.

Io vedevo. La mia vista si adattò subito all’oscurità, e anche se le ombre sinistre non si diradarono, riuscii a scorgere un altare di pietra su una piattaforma, con strani simboli intagliati.

— Ti aspettavo — echeggiò la voce aspra di Ahriman.

Mi girai nella direzione della voce e lo vidi, una presenza più scura dell’oscurità, all’estremità opposta della stanza.

— Vieni avanti — disse. — Alla ragazza non accadrà assolutamente nulla. Puoi lasciarla lì.

Agla sembrava pietrificata. Mi stringeva le braccia, immobile, lo sguardo fisso nel vuoto.

— Non vedrà né sentirà nulla — disse Ahriman. — Lasciala e vieni da me.

Mi liberai dalla stretta di Agla. Era ancora calda e viva, però non le sentivo il respiro né il battito del cuore.

— Ho solamente accelerato il tempo per noi due — mi spiegò Ahriman mentre la studiavo. — Così potremo parlare senza che qualcuno ci spii o ci disturbi.

Attraversai il pavimento di pietra. Le pietre sembravano reali, solide. Ahriman era come lo ricordavo… una mole possente, scura, minacciosa, e un paio di occhi rossi simili a braci. Agla restò bella e immobile come una statua fatta di carne.

— Quando tornerai da lei, non saprà del tempo trascorso. E per lei non sarà trascorso un solo istante.

— Sei bravo a manipolare il tempo — osservai.

Era ritto, le gambe divaricate, i pugni sui fianchi. Indossava una tunica bordata di pelo e stivali di cuoio. Sembrava disarmato, del resto le armi non servivano a un uomo della sua potenza.

— Tu stesso ti sposti nel tempo con grande facilità — sibilò Ahriman. — Nel tempo, e nello spazio. È stato lungo il viaggio dall’accampamento di Hulagu.

— Non hai mai viaggiato con la carovana di cammelli, vero?

Poco mancò che la sua faccia accigliata sorridesse. — No. Ho usato un sistema di trasporto diverso. Sono qui a Karakorum da tre mesi. — Sono molto rispettato come un sacerdote di una nuova religione, una religione per guerrieri.

— Quei due assassini, li hai mandati tu.

— Sì — ammise. — Dubitavo che potessero concludere qualcosa, ma dovevo vedere se possedevi ancora i poteri che avevi l’ultima volta che ci siamo incontrati.

— Nel reattore a fusione.

Per un attimo aggrottò la fronte, perplesso. — Reattore a… — Poi inspirò a fondo. — Ah, sì, certo. Tu stai muovendoti all’indietro, verso la Guerra. Io non ho ancora raggiunto quell’epoca.

Ci spostavamo in direzioni temporali opposte, ricordai. Ci eravamo già incontrati, e ci saremmo incontrati di nuovo.

— Mi hai… ucciso, dunque? — Il tono di Ahriman tradiva una lieve preoccupazione.

— No. Tu mi hai ucciso.

— Ah, allora posso ancora riuscire nel mio intento.

— Distruggere la razza umana.

Mi fissò minaccioso. — Umana. Guarda le meraviglie fatte da questi mongoli. Guarda come massacrano i loro simili a centinaia di migliaia, e il modo in cui altri che si ritengono gente civile approvano queste stragi e ne traggono beneficio. Davvero un comportamento umano.

— Ti consideri migliore, visto che intendi massacrarci a milioni?

— Intendo correggere un errore commesso cinquantamila anni fa — ringhiò Ahriman. — Ogni vita soffocata significherà il guadagno di una vita. La mia gente vivrà, la tua morirà. E morrà anche il tuo creatore… quello che si fa chiamare Ormazd.

— La guerra si è svolta cinquantamila anni fa?

— Lo scoprirai. Mi incontrerai, allora. Vedrai. Perché altro Ormazd ti avrebbe fatto arretrare dalla Fine verso La Guerra? Per nasconderti la verità.

Chiusi gli occhi, sforzandomi di respingere le sue bugie. Mi formai un’immagine mentale di Ormazd, splendente nel buio dell’eternità. Il Radioso, il dispensatore della vita e della verità. Ahriman sosteneva che fosse il mio creatore, e che ci avrebbe uccisi entrambi.

Aprendo gli occhi, dissi: — La mia missione è quella di ucciderti.

— Lo so. Io stesso sarei felice di ucciderti, con la stessa facilità con cui si schiaccia un insetto.

— Con la stessa facilità con cui hai ucciso lei?

— La ragazza?

— Si chiamava Aretha, nel ventesimo secolo.

— Non sono ancora stato là.

— Ci sarai. E la ucciderai. Se non ce ne fossero altre, mi basterebbe questa ragione per odiarti.

Si strinse nelle spalle massicce. — Puoi odiare, puoi anche amare. Ormazd ti ha programmato con estrema flessibilità.

Ero abbastanza vicino da afferrarlo per la gola. Ma avevo già assaggiato la forza di quelle braccia, e sapevo che avrebbe potuto spezzarmi come un fuscello.

— I mongoli non facilitano il nostro scontro — disse Ahriman, interrompendo i miei pensieri. — Hanno le loro leggi, e faranno tutto quanto sarà loro possibile perché noi le osserviamo.

— Chiederò udienza a Ogotai e lo metterò in guardia contro di te. Non avrai successo qui.

La sua bocca sottile si piegò in un sorriso agghiacciante. — Successo? Ho già vinto. E tu mi hai aiutato!

— Cosa vorresti dire?

Scosse la testa. — Cosa ti aspetti da me? Pensi che sia qui per assassinare Ogotai?

— Sei il capo del culto degli assassini, vero?

Il sorriso degenerò in un ghigno di scherno. — No, mio antico avversario. Non sono il Veglio delle Montagne. Solo un vero essere umano può pensare di uccidere i suoi fratelli per profitto. Il capo degli assassini è un persiano, un umano come te. Era un amico di gioventù di qualcuno di cui forse hai sentito parlare… Omar Khayyam, l’astronomo.

— Credevo fosse un poeta.

— Sì, scribacchiava versi di tanto in tanto. Ma per quanto riguarda gli assassini, Hulagu li schiaccerà… dopo aver preso Bagdad e distrutto il fiore della cultura islamica.

— Hai detto che hai già vinto qui… e che io ti ho aiutato.