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Finalmente, Ye Liu Chutsai ritornò, l’aria leggermente perplessa, come se non ricordasse bene perché stesse facendo certe cose.

— Fatto — annunciò. — Sarai ricevuto dal Gran Khan questa sera, prima del pasto. Verrai solo.

Guardai Agla.

— Il Gran Khan non rispetterebbe un uomo accompagnato da una donna — spiego Liu. — Senza offesa per te, giovane signora.

— Non mi sento offesa — disse Agla. — Temo soltanto che Orion possa non capire tutto quello che accadrà nella corte di Ogotai.

— Ci sarò io a guidarlo — disse Liu. — Dopo la profezia contraria di Ahriman è già abbastanza in pericolo, senza presentarsi al Gran Khan con una donna al suo fianco… soprattutto una donna che a detta di molti è una guaritrice… e forse una specie di strega…

— Capisco — annuii. Poi, ricordando quel che era successo a Aretha, aggiunsi: — Mentre sarò assente, vorrei che le guardie proteggessero Agla, però. Ahriman, o magari qualcun altro, potrebbe cercare di colpirmi tramite lei.

Il mandarino piegò il capo. — Sarà fatto. Siete entrambi sotto la mia protezione, per quel che può valere. E tu, Orion, sei sempre protetto dalla raccomandazione di Subotai.

Gli sorrisi. — Apprezzo la generosità di Subotai, e stimo enormemente la tua, Chutsai.

Liu parve compiaciuto, ma ammonì: — Uno scudo è forte solo quanto il braccio che lo regge. Hai un nemico potente qui a Karakorum. Sii prudente.

— Grazie. Lo sarò.

Nel tardo pomeriggio, mentre Agla girava nervosa nel nostro alloggio e io cercavo di concentrarmi sui dati in mio possesso per intuire il futuro e decidere cosa dire a Ogotai, un servo mi portò abiti nuovi da indossare per l’udienza. Un dono di Ye Liu Chutsai.

Agla osservò stupita gli indumenti di cuoio e di stoffa pregiata.

— Sembri un principe! Un principe bello e potente!

Le sorrisi, anche se la faccia appena rasata mi bruciava. Sbarbarsi con l’acqua fredda e un coltello affilato è una vera prova di coraggio.

Agla mi guardava raggiante, cercando di nascondere quanto fosse preoccupata. Sapevamo entrambi che i visitatori della tenda del Gran Khan a volte ne uscivamo con dei doni… oro, schiavi, perfino cavalli. Però certe volte ne uscivano con argento fuso nelle orecchie.

— Devi essere molto prudente — mi disse Agla, fissandomi ansiosa.

— Certo.

— Lasciati guidare dal mandarino. Nascondi a tutti i tuoi poteri, o si spaventerebbero come Hulagu.

— Pensi, Agla, che ci sarà anche Ahriman là?

Gli occhi grigi di Agla si spalancarono ancor di più. — Non lo so. Può darsi.

Bussarono alla porta.

— Be’, ci sia o meno, queste devono essere le guardie che mi scorteranno fino al padiglione — dissi.

Agla mi gettò le braccia al collo. — Oh, se potessi venire con te!

— Non mi accadrà nulla. — Le diedi un bacio, poi andai ad aprire. Fuori c’erano quattro guerrieri in armatura lucente che facevano sfigurare le nostre due guardie.

Mi voltai verso Agla e le rivolsi un ultimo sorriso, poi chiusi la porta. Io e la scorta marciammo verso il padiglione; un breve sguardo alle mie spalle, e scorsi Agla ferma sulla soglia che mi osservava, mentre le due guardie fissavano ora lei ora me.

Superammo i due falò, e attesi che la sentinella all’ingresso mi perquisisse. Non fu una perquisizione pro forma; certe visite mediche erano meno meticolose.

Finalmente entrai nella tenda, due guerrieri davanti a me, due dietro. Ero un ospite importante o un prigioniero pericoloso; probabilmente Ogotai e i suoi aiutanti dovevano ancora decidere quale delle due ipotesi scegliere.

La tenda era molto più grande di quella di Hulagu. Tappeti cinesi e persiani coprivano il terreno. Alle pareti di feltro erano appesi drappi di seta e arazzi. Su un lato, un tavolo che sembrava d’argento massiccio imbandito di latte di cavalla, frutta, carne e sale: un simbolo della generosità nomade verso gli ospiti. Alle estremità del tavolo erano appostati alcuni guerrieri, e altri guerrieri occupavano i vari ingressi della tenda. Di fronte a me, su una piattaforma, sedeva Ogotai, il Gran Khan. Alla sua sinistra, una mezza dozzina di donne bellissime; a destra, una ventina di mongoli che potevano essere solo generali, e altri guerrieri. Ye Liu Chutsai, in una splendida veste blu e oro, se ne stava alle spalle del sovrano.

Ogotai non aveva trono, era sdraiato su dei cuscini. Era un uomo massiccio, robusto, che dimostrava poco più di cinquant’anni, con un’espressione aperta e curiosa sulla faccia tondeggiante. Stava ingrassando, ma a quanto pareva non gli importava. In una mano stringeva un calice d’oro tempestato di gemme. Dietro di lui, a debita distanza, c’era un ragazzo cinese che reggeva una brocca d’oro: il coppiere del Khan.

Mentre seguivo a passo di marcia i miei quattro custodi verso la piattaforma, mi guardai attorno svelto. Nessuna traccia di Ahriman. “Be’, meglio così”, pensai.

I guerrieri mi fecero fermare a tre passi dal Gran Khan. Mi inchinai leggermente, drizzandomi subito. Non avevo intenzioni di prostrarmi in segno di sottomissione completa. Ero un emissario, non uno schiavo.

— Grandissimo Khan — disse Ye Liu Chutsai — questo è Orion, un emissario delle lontane terre dell’Ovest, al di là delle montagne, delle pianure e del grande mare.

Ogotai lanciò un’occhiata dietro di sé e il coppiere si affrettò a riempirgli il calice. Il Gran Khan bevve una sorsata, schioccò le labbra, e mi studiò attentamente squadrandomi da capo a piedi. Poi all’improvviso scoppiò a ridere.

— Guardate! — esclamò indicandomi. — Non ha scarpe!

17

Nella tenda si levò un coro di risate e schiamazzi. Solo Ye Liu Chutsai tacque, ma il suo volto solitamente impassibile aveva un’espressione turbata e imbarazzata.

Portavo ancora i miei sandali logori. Una nota appariscente e stonata, agli occhi dei mongoli, come complemento dei magnifici indumenti che il mandarino mi aveva mandato. Liu aveva incluso un paio di stivali, ma come al solito erano troppo piccoli per me. La camicia e la giubba mi stringevano di spalle ed erano corte di maniche, ma ero riuscito a infilarle. Le scarpe si erano rivelate invece un’impresa impossibile.

Ogotai rideva in maniera isterica, e gli altri mongoli lo imitavano senza farsi pregare. Forse il Gran Khan era già piuttosto alticcio prima del mio ingresso; io non trovavo nulla di tanto divertente nella condizione delle mie calzature.

— Non ho mai visto un mago andare in giro con le dita dei piedi che saltano fuori! — commentò Ogotai, scatenando un altro scroscio di ilarità.

Ero imbarazzato, ma sollevato. Almeno, sembrava che Ogotai non fosse tanto preoccupato per la mia presenza. Di fronte a un sospetto assassino o a un pericolo soprannaturale un uomo non ride a crepapelle.

Finalmente, Ogotai si calmò e nella tenda tornò il silenzio. Le guardie che si erano sbellicate si drizzarono, di nuovo serie. Ye Liu Chutsai aveva lo sguardo fisso nel vuoto. Ogotai alzo il calice e il coppiere si precipitò a riempirglielo.

— Baibars — chiamò il Gran Khan dopo aver bevuto.

Un giovanotto si alzò dai cuscini e si inchinò.

— Baibars, trova un calzolaio e fa in modo che il nostro ospite abbia un paio di stivali adatto.

— Sì, Zio.

— Bene, uomo dell’Ovest, vieni a bere un po’ del mio vino. La tua gente beve vino, vero?

Una decina di schiavi sbucarono da dietro la piattaforma e sistemarono grossi cuscini multicolori perché mi sedessi alla destra del Khan. Mi porsero un calice, prezioso guanto quello di Ogotai. Mi sedetti, presi il calice, lo alzai in segno di ringraziamento, e sorseggiai il vino rosso scuro.

— Vino di Shiraz — disse Ogotai. — Una terra non lontana da dove hai incontrato mio nipote Hulagu.