— È un piacere raro — dissi. — Anche nella mia terra lontana il vino di Shiraz è famoso. — Dalle mie letture del ventesimo secolo, sapevo che quello era il vino decantato da Omar Khayyam nel suo Rubaiyat.
L’aria quasi indifferente, Ogotai disse: — Sono stato messo in guardia contro di te. Mi è stato riferito che sei un mago potente… e un assassino.
Guardai Liu, in piedi immobile alle spalle del sovrano.
— Sono un uomo, mio Grande Khan, non un mago. Un emissario di una terra remota, non un assassino. Non porto armi…
— Ma non ne hai bisogno — m’interruppe Ogotai. — Hai ucciso dei guerrieri armati con le tue sole mani. Prendi le frecce al volo coi denti. — Sogghignò. — Almeno, così mi hanno detto.
— Mi difendo come meglio posso, mio signore. Ma se un guerriero mi scaglia una freccia è molto probabile che la fermi con la mia carne e il mio sangue, come qualsiasi altro uomo.
— A me hanno detto diversamente.
Respirai a fondo. — Gran Khan, mio signore, sicuramente avrai sentito più storie favolose di qualsiasi altro uomo. Sai che la verità si ingigantisce passando di bocca in bocca.
Ogotai rise. — Sì, sì. La mia bravura in battaglia cresce di giorno in giorno mentre io me ne sto seduto qui! Gli eserciti che sconfiggo sono sempre più grandi, i nemici che ho ucciso sono sempre più numerosi, crescono come una colonna di fumo all’orizzonte.
— Mio Khan — disse uno dei mongoli seduti accanto a noi — non fidiamoci della parola di questo straniero. Mettiamolo alla prova.
Aveva l’aria arcigna di un poliziotto; probabilmente si trattava dell’ufficiale responsabile della sicurezza del sovrano.
— Cosa suggerisci, Kassar? — chiese Ogotai.
— Facciamolo alzare — il mongolo indicò l’area vuota al centro della tenda — e le guardie gli lanceranno delle frecce. Così sapremo se le storie che abbiamo sentito sono vere o false.
Ogotai mi guardò prima di rispondere. — Se sono false, avremo ucciso un emissario.
— Meglio un emissario morto che un mago vivo — borbottò Kassar.
— O diamogli una spada e facciamogli sfidare Chamuka! — propose un altro mongolo. — Sarebbe uno scontro interessante.
— Un incontro di lotta! — Intervenne un altro.
Ogotai ascoltò, sorseggiando il vino. Ye Liu Chutsai ci sovrastava impassibile, grave, silenzioso.
Sapevo che se avessero cercato di infilzarmi con delle frecce o di farmi attaccare da un campione di scimitarra avrei dovuto difendermi. Così avrebbero scoperto che le storie sul mio conto non erano poi tanto esagerate. Dopo di che, cosa sarebbe successo? Un incontro di lotta sarebbe stato il male minore, però, se ben ricordavo, in un incontro amichevole alla mongola era facile che uno dei contendenti finisse col collo rotto o la spina dorsale spezzata.
Ogotai mi studiò al di sopra dell’orlo del suo calice. Forse il bere continuo era una specie di facciata dietro cui si nascondeva per studiare con calma una determinata situazione e riflettere.
Depose il bicchiere sul tappeto e, mentre il giovane coppiere si affrettava a riempirlo, zittì la tenda con un cenno imperioso della mano.
— La Yassa ci impone di essere ospitali con gli stranieri che entrano nel nostro campo — disse, con voce improvvisamente ferma e squillante. — Quest’uomo è un emissario di una terra lontana. Non bisogna metterlo alla prova come un cavallo appena domato o una lama appena forgiata.
Kassar non era soddisfatto. — Ma Ahriman ci ha avvertito…
— Ho parlato — disse il Gran Khan.
Al che la discussione era terminata. Ogotai si sdraiò sui cuscini, guardò il calice colmo ma non lo toccò. Indicando col capo le donne alla sua sinistra, disse: — Ho saputo che hai una donna con te, una guaritrice. Ti soddisfa? Ne vorresti un’altra? Hai abbastanza servi che si occupino di te?
— Ricevo un trattamento soddisfacente, grazie, generoso Khan — risposi.
Ogotai chiuse gli occhi un attimo, quasi assalito da una fitta di dolore improvvisa. Quando li riaprì, disse: — Sei un emissario delle terre dell’Ovest. Il messaggio di Subotai dice che sai molte cose sulle terre oltre la regione dove il suolo è nero. Qual è la tua missione, qui? Perché sei venuto da me?
Già, perché? Sapevo che sarebbe stato inutile metterlo in guardia contro Ahriman iniziando un gioco di accuse reciproche. Ye Liu mi aveva spiegato che, nel dubbio, i mongoli sceglievano la soluzione più semplice… tagliando la testa a entrambe le parti in causa…
A mia volta, fissai Ogotai negli occhi. Vidi del dolore, e comprensione, e qualcosa che non mi aspettavo di trovare negli occhi di un imperatore barbaro: amicizia.
Quell’uomo che poteva decretare la distruzione di intere popolazioni e il massacro di intere persone aveva deciso, basandosi sulle mie misere calzature, che non costituivo una minaccia per lui. Mi diventò simpatico. Era disposto a fidarsi di me, e non era il molle ubriacone che Ye Liu mi aveva dipinto.
Cosa potevo dirgli, se non la verità?
Abbassando la voce, mormorai: — Mio signore, non potremmo parlare dove gli altri non possano sentirci? Quello che devo dirti è riservato solo a te.
Rifletté in silenzio, quindi annuì. — Più tardi. Ti manderò a chiamare. — Poi ad alta voce perché tutti lo udissero aggiunse: — Come sei riuscito ad attraversare il Tien Shan con quei ridicoli sandali?
I mongoli risero e scherzarono tra loro mentre io mi lanciavo in una descrizione del viaggio dalla Persia. Poi mi chiesero della mia terra e del mare che la separava dall’Europa. Parlai dell’Atlantico come di un mare infido e tempestoso, di un abisso insuperabile… il che era vero, per quei cavalieri.
— Allora come hai fatto ad attraversarlo? — domandò a bruciapelo Kassar. — Con la magia?
Nella tenda calò il silenzio. Anche il Gran Khan mi lanciò un’occhiata penetrante. Mi ero teso una trappola con le mie chiacchiere.
— Non con la magia — risposi, annaspando disperato in cerca di qualcosa di convincente. — Avete visto le imbarcazioni del Catai, vero?
Alcuni mongoli annuirono. Kassar, no.
— Navi come quelle potrebbero attraversare l’oceano, se fossero abbastanza fortunate da non essere sorprese dalle tempeste. — Pensai ai vichinghi, che erano approdati in Islanda, Groenlandia, e perfino in Labrador, a bordo dei loro barconi scoperti.
— Allora perché non possiamo compiere la traversata su imbarcazioni del genere? — incalzò Kassar.
— Un numero esiguo di uomini potrebbe — dissi. — Ma per trasportare un esercito sarebbero necessarie centinaia di navi. Molte sarebbero distrutte dalle tempeste, dai gorghi e dai mostri che salgono dagli abissi. — Pregai in silenzio che le mie parole non arrivassero un giorno fino in Spagna ritardando la partenza di Colombo. — Un esercito non riuscirebbe mai a compiere la traversata senza perdere più uomini che in molte battaglie.
Ogotai corrugò la fronte. — Mio nipote Kubilai sogna di inviare un esercito oltremare e conquistare il Giappone. Tu cosa profetizzi?
— Non faccio profezie, mio Khan. Sono un emissario, non un profeta.
Ogotai sbuffò deluso. Gli sarebbe piaciuto sentire una predizione, ma io non intendevo immischiarmi nella politica di corte.
La discussione proseguì per ore. Verso l’alba, quando anche l’imperturbabile Ye Liu cominciò a dare segni di stanchezza, Ogotai batté le mani annunciando che sarebbe andato a letto. Noi altri ci alzammo e ci inchinammo, uscendo, mentre il sovrano si ritirava accompagnato da tre donne.
Non avevo ancora compiuto metà del tragitto verso il mio alloggio, quando un guerriero mi raggiunse e mi comunicò che il Gran Khan voleva vedermi. La mia scorta e io facemmo dietrofront e seguimmo il guerriero alla tenda privata di Ogotai.