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Non esistevano serrature a Karakorum. Aprii e vidi un vecchio tozzo, raggrinzito, con la pelle che sembrava la corteccia di un albero e pugni grossi quasi quanto la sua testa rasata. Portava abiti logori, sudici, e una borsa di cuoio appesa a una spalla.

— Così sei sveglio! — esordì ringhioso.

Lo fissai malamente. — Già, adesso sì.

Il vecchio sbuffò. — Lo so quanto durano quelle gare di bevute nell’ordu. E quando il Gran Khan è brillo la gente si fa promettere da lui tante cose.

— Chi sei? — chiesi.

— Il calzolaio, e chi se no? — rispose entrando in casa. — Un messaggero del Gran Khan mi ha ordinato di venire da te e di farti un paio di stivali. Come se non avessi già abbastanza da fare! Ma loro se ne infischiano! Fai un bel paio di stivali a questo straniero dell’Ovest! Lo ha ordinato il Gran Khan in persona! E sbrigati, altrimenti ci rimetteremo tutti la testa! Così eccomi qua, che ti piaccia o no. Ti avrò rovinato il sonno, ma per gli dei avrai un paio di stivali che soddisfino il Gran Khan, e li avrai prima che stasera ricomincino le bevute.

Si sedette sul pavimento e cominciò a vuotare la sua borsa. Prima di sera, avevo i miei stivali, belli e comodi. Ma quel calzolaio era il peggior tiranno che avessi mai incontrato.

Ogotai mi aveva preso in simpatia, e mi invitava spesso nel padiglione. Un giorno mi portò a cavalcare, fuori dal caos e dalla sporcizia della città, lontano dai recinti e dalle stalle, nella sterminata prateria ondeggiante.

— Questa è la vera casa dei mongoli — mi disse, girandosi sulla sella per contemplare la distesa senz’alberi, e respirò a fondo l’aria limpida e pura.

Gli dissi: — All’Ovest, in una terra chiamata Grecia, la prima volta che videro degli uomini a cavallo secoli e secoli addietro, gli indigeni credevano che uomo e cavallo fossero un’unica creatura. Li chiamarono centauri.

Ogotai sorrise. — Davvero, un mongolo senza un cavallo non e un uomo completo.

Cavalcavamo spesso assieme. All’inizio Ogotai portava con sé una scorta di guerrieri, ben presto però cominciammo a cavalcare da soli. Gli piaceva la mia compagnia e si fidava di me. Gli parlai delle terre e dei popoli dell’Europa, dei grandi re futuri e delle glorie degli antichi imperi. Gli interessava in modo particolare Roma, e fu deluso quando gli dissi della corruzione e della decadenza dell’impero romano.

— Noi non avremo mai Gran Khan come Tiberio o Caligola… possono esistere solo quando gli orkhon sono senza carattere. I mongoli non sono fatti così.

Agla diffidava dell’amicizia di Ogotai. — Stai scherzando col fuoco. Prima o poi il Tenebroso getterà un incantesimo su Ogotai, oppure il Gran Khan si ubriacherà e litigherà con te.

— È un uomo diverso da quello che credi.

Lei mi fissò coi suoi occhi grigi profondi come l’oceano. — È il Gran Khan, un uomo che ha il potere di distruggere città e nazioni. La tua vita o la mia non contano molto per un uomo del genere.

Feci per ribattere che si sbagliava, invece mormorai: — Non credo.

L’estate passava, e io ero ancora a un punto morto, non sapevo che fare né cosa stesse tramando Ahriman. Dei messaggeri arrivarono al galoppo dall’Ovest, annunciando trafelati la vittoria di Subotai su Bela. Alcune settimane dopo, arrivarono lunghe carovane di cammelli e muli, cariche di armature, armi e gioielli. Il bottino raccolto da Subotai in Ungheria e Polonia.

Non vedevo mai Ahriman. Era come se operassimo in due strutture temporali diverse, in due dimensioni separate. Era lì a Karakorum, lo sapevo. E lui sapeva che io ero lì. Entrambi vedevamo Ogotai quasi ogni giorno… o notte. Eppure, o per l’accortezza del sovrano o per quella di Ahriman, in tutte quelle settimane non ci incontrammo mai.

Il vento del Nord cominciava a farsi gelido. L’erba era ancora verde, ma tra poco sarebbero iniziate le tempeste autunnali, poi sarebbe arrivata la neve. Un tempo i mongoli avrebbero spostato l’accampamento a sud, scontrandosi con altre tribù che rivendicavano l’uso degli stessi pascoli lungo il margine del Gobi. Ora, dato che Karakorum era in pratica un insediamento fisso, il Gran Khan si preparava a restare e a sfidare i venti e le bufere invernali.

I mongoli organizzavano una caccia ogni autunno, e Ye Liu Chutsai mi convocò nella sua tenda per dirmi che il Gran Khan mi invitava a partecipare alla caccia.

La tenda del mandarino era un piccolo angolo di Cina trasferito nelle steppe mongole. Mobili massicci di tek e di ebano, cassapanche intarsiate, un’atmosfera di quiete e armonia… così diversa dall’energia esuberante, quasi infantile, dei mongoli. Era la tenda in cui gli avevo chiesto di combinare il mio primo incontro con Ogotai. Non mi ero reso conto allora che Ye Liu vivesse lì. Adesso avvertivo attorno a me lo stoicismo del filosofo: Ye Liu dormiva lì, probabilmente su quella panca di ciliegio coperta di seta, ma quella tenda era davvero una casa per i libri e le pergamene e gli strumenti di osservazione celeste del mandarino… tutte cose più rare e preziose del corpo di un vecchio amministratore cinese.

— Il Gran Khan ha dimostrato una grande simpatia per te — disse Ye Liu, dopo avermi fatto sedere al suo tavolo ingombro e avermi offerto del tè.

— Anch’io ho una grande simpatia per lui — ammisi. — Per essere l’imperatore del mondo, è un uomo stranamente gentile.

Liu sorseggiò dalla minuscola tazza prima ai rispondere: — Governa saggiamente… permettendo ai suoi generali di ampliare l’impero mentre lui fa rispettare la Yassa all’interno.

— Col tuo aiuto — dissi.

— Dietro ogni grande sovrano ci sono amministratori saggi. La grandezza di un sovrano si determina osservando chi ha scelto come collaboratori.

Mi venne in mente il cardinale Richelieu.

— Eppure, nonostante la tua amicizia — proseguì Ye Liu parlando lentamente — l’uomo di nome Ahriman è anch’esso molto vicino al Gran Khan.

— Il Gran Khan ha molti amici.

Il mandarino posò adagio la tazza sul vassoio laccato. — Non direi che Ahriman sia suo amico. Piuttosto, pare che sia diventato una specie di medico per il Gran Khan.

Rimasi sorpreso. — Medico? Il Gran Khan è ammalato?

— Solo nel cuore — rispose Ye Liu. — È stanco della sua vita di ozii e di lusso. Eppure, l’alternativa è quella di scendere in campo con un esercito e conquistare nuove terre.

— Non lo farà — dissi, ricordando che Ogotai mi aveva confidato di essere stanco di scontri e spargimenti di sangue.

— Sono d’accordo. Non può farlo. Hulagu, Subotai, Kubilai… sono loro a guidare gli eserciti. Il compito di Ogotai è restare a Karakorum ed essere il Gran Khan. Se cominciasse a radunare un esercito, cosa penserebbero gli orkhon? Per lui non ci sono più terre da conquistare se non quelle già invase dai suoi generali.

Cominciai a capire. Ogotai non aveva proprio più spazio per conquiste personali. L’Europa, la Cina, il Medio Oriente stavano già subendo l’attacco dei mongoli, in qualsiasi direzione si fosse mosso, Ogotai avrebbe scatenato una guerra civile. Poi però pensai all’India.

— E la terra a sud delle grandi montagne, a sud del Tetto del Mondo?

— L’Industan? — Nonostante il suo autocontrollo, Ye Liu accennò a una smorfia di derisione. — È una terra che brulica di accattoni infetti e di maharajah incredibilmente ricchi. Il caldo là uccide uomini e cavalli. I mongoli non ci andranno mai.

Ye Liu sbadigliava. Mi sembrava di ricordare che i mongoli infine avessero conquistato l’India, o almeno una parte dell’India. Gli indigeni li chiamavano mogol, un nome che evocava potenza e splendore, rispolverato poi cinicamente nel ventesimo secolo per indicare certi pezzi grossi di Hollywood.

Il mandarino interruppe le mie considerazioni dicendo: — Per fortuna è arrivata la stagione della caccia. Forse questo curerà il dolore che tormenta l’animo del Gran Khan, e per un po’ non avrà bisogno delle pozioni soporifere di Ahriman.