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La caccia per i mongoli era una specie di campagna militare diretta contro prede animali invece che umane. I mongoli non conoscevano il significato di sportività o ecologia. Quando cacciavano, lo facevano per rifornire di cibo il clan in vista dei tremendi rigori invernali. La loro organizzazione era meticolosa ed efficiente.
Squadre di giovani ufficiali esploravano fette di territorio di centinaia di chilometri quadrati e tornavano a riferire all’ordu, in modo che gli anziani potessero scegliere la zona migliore. Una volta stabilito il posto, i mongoli montavano sui loro pony e partivano in formazione militare. Formavano un cerchio immenso, forse addirittura un centinaio di chilometri. Tutti gli animali all’interno di quella circonferenza dovevano essere uccisi. Senza eccezioni. Senza pietà.
La battuta richiedeva più di una settimana. Non si uccideva nulla prima del segnale del Gran Khan, e il sovrano aspettava che il cappio di cavalieri armati si fosse stretto il più possibile attorno agli animali braccati.
Tra i cavalieri camminavano i battitori, percuotendo gli scudi con le spade, urlando, agitando i cespugli, spingendo continuamente gli animali verso il centro del cerchio. Di notte si accendevano falò per impedire agli animali di sfuggire alla trappola.
Dapprima non riuscii a vedere altri animali a parte i nostri cavalli. Solo una distesa lievemente ondulata con cespugli sparsi qui e là. Il terzo giorno, però, cominciai a scorgere cervi, conigli, lupi che correvano tra l’erba alta. Tra le bestie stava diffondendosi il panico, e predatori e prede fuggivano fianco a fianco dai rumori terrificanti e dall’odore degli esseri umani.
Io cavalcavo alla sinistra del Gran Khan, separato da lui da due suoi nipoti. Ye Liu non era stato invitato alla caccia, né si sarebbe sentito a proprio agio lì nella steppa. Ogotai si divertiva, anche se lo sforzo fisico per lui non era indifferente. Montava in sella all’alba, come tutti gli altri, ma verso mezzogiorno era già stravolto, taciturno, e si ritirava nelle retrovie e passava il pomeriggio riposandosi. Di notte si coricava presto, senza bere come faceva a Karakorum. Ma anche se il suo corpo era rigido per l’età e la sofferenza, il morale di Ogotai era alle stelle. Era libero dagli agi e dalle preoccupazioni di corte, respirava aria pura lontano dalle decisioni che gravavano su di lui nella capitale.
Anch’io mi sentivo libero. Infatti Ahriman non occupava più la mia mente come un’ossessione. Pensavo ad Agla, specialmente di notte prima di appisolarmi sul terreno duro avvolto in una coperta puzzolente. Tutte cose che potevano aspettare, comunque. Al mio ritorno, avrei ritrovato tutti i miei problemi a Karakorum, forse più grossi di prima. Per ora mi stavo divertendo moltissimo, e ricordai che la parola persiana paradiso in origine significava territorio di caccia.
La fuga degli animali dal cerchio sempre più stretto dei cavalieri avrebbe rovinato la strategia della caccia. Per i primi giorni, gli animali si limitarono a confluire verso il centro, però via via che la morsa si stringeva alcune bestie terrorizzate cercavano di spezzare l’accerchiamento. Non restava che ucciderle. Nemmeno una doveva mettersi in salvo, sarebbe stato un disonore per i cacciatori.
L’arcigno Kassar era alla mia sinistra la mattina in cui un lupo, schiumante di paura e odio, si lanciò nello spazio tra noi. Kassar lo infilzò con la lancia mentre io esitando mi lasciavo precedere. Ululando agonizzante il lupo cercò di girarsi e addentare la lancia, ma tre battitori lo finirono a mazzate.
Kassar rise e agitò l’arma sporca di sangue. Io stavo invece riflettendo sul mio strano comportamento… Ero capace di uccidere un uomo senza la minima esitazione, eppure avevo permesso a Kassar di intervenire per primo e uccidere quell’animale.
Più tardi mi ritrovai a cavalcare affiancato al Gran Khan. I suoi nipoti si erano fermati per mangiare un boccone e cambiare pony. Il sole del pomeriggio era caldo anche se spirava una brezza tesa.
— Ti piace la caccia, uomo dell’Ovest? — mi chiese Ogotai.
— Non ho mai visto niente di simile prima d’ora. È come una campagna militare.
Ogotai annuì. — È vero. I guerrieri più giovani hanno un’opportunità per dimostrare il loro coraggio e la loro abilità nell’eseguire gli ordini. Parecchi generali si sono formati addestrandosi così contro gli animali.
Dunque, quella era la versione mongola dei campi di Eton.
Un servo si avvicinò con carne e frutta secca in una bisaccia, e una fiasca d’argento di vino. Ogotai divise il pasto con me mentre continuavamo a cavalcare. Di fronte a noi gli animali correvano, saltavano, sfrecciavano nell’erba rada, sempre più confusi e spaventati.
Ogotai stava scolando l’ultima goccia di vino, alzando la fiasca e piegandosi all’indietro, quando un cinghiale sbucò da una macchia di cespugli e si proiettò a rotta di collo verso di noi. Il Gran Khan non lo vide. Il suo cavallo sì; nitrendo, s’impennò.
Solo un mongolo poteva riuscire a restare in sella. Ogotai perse le redini che teneva mollemente con la sinistra, si lasciò sfuggire la fiasca, però strinse la criniera del pony e non fu disarcionato.
Notai questi particolari con la coda dell’occhio, perché la mia attenzione era fissa sul cinghiale. I suoi occhi rossi erano pieni d’odio, dalla bocca aperta gli schizzavano gocce di saliva. Le zanne scintillavano come lame, sorrette da un collo muscoloso e un corpo massiccio, compatto, fremente di furia.
Il mio cavallo aveva scartato di lato nel tentativo di sottrarsi all’affondo del cinghiale, così non sarei riuscito a spostare la mia lancia in tempo per arrestare la carica della bestia. E il cinghiale puntava dritto in direzione del cavallo di Ogotai.
Senza nemmeno riflettere, saltai dalla sella, sguainando la scimitarra mentre colpivo il fianco del cinghiale come un terzino di football che tentasse di placcare un avversario. Rotolammo a terra, e il cinghiale grugniva e si dimenava mentre gli stringevo la gola col braccio sinistro conficcandogli ripetutamente la lama nel corpo. Sentivo un calpestio di zoccoli attorno a me… il mio cavallo o quello di Ogotai. Sarebbe stato sciocco farsi uccidere dal calcio di un cavallo mentre lottavo con un cinghiale infuriato, pensai.
Finalmente il cinghiale fu scosso da un tremito e restò immobile. Estrassi la scimitarra dal fianco e mi drizzai, barcollando leggermente.
Una dozzina di guerrieri mongoli mi circondarono, le armi in pugno, pronti ad aggredire l’animale ormai morto. Altri guerrieri in sella tendevano gli archi. Tra di essi, Ogotai.
Per diversi secondi nessuno parlò. Sputai un miscuglio di erba e terriccio. Avevo una spalla indolenzita, ma per il resto mi sembrava di essere a posto.
— Uomo dell’Ovest — esclamò Ogotai — è così che cacciate i cinghiali nel tuo paese?
La tensione si allentò e tutti risero. Anch’io risi, sentendomi improvvisamente sciocco. Se fossi stato un cavaliere più in gamba avrei potuto infilzare il cinghiale e sistemare tutto in pochi attimi. Ogotai aveva ragione: avevo scelto il sistema più complicato.
Un servo mi riportò il mio pony, e montai in sella. Kassar mi rivolse un ghigno truce; il lupo che aveva ucciso era legato dietro di lui. Vidi che i nipoti di Ogotai erano tornati, e feci per schierarmi nella mia solita posizione, tra i nipoti e Kassar.
— No — disse Ogotai. — Rimani qui al mio fianco. — Si protese e mi strinse il braccio. — Cavalcherai accanto a me adesso… nel caso dovessimo incontrare altri cinghiali.
Mi inchinai a quel complimento, poi mi voltai e fissai Kassar con un sorrisetto compiaciuto. Lui mi fulminò con lo sguardo.
Come l’amicizia forgiata nella foga della battaglia, il legame tra Ogotai e me divenne saldo e duraturo quel giorno. Restammo assieme per il prosieguo della caccia, e durante il giorno della strage finale, quando uccidemmo in continuazione come forsennati presi dalla smania del sangue.