Eravamo ancora affiancati in testa alla spedizione durante il viaggio di ritorno. Alle nostre spalle, una colonna lunga un paio di chilometri di guerrieri e di carri carichi di animali morti… selvaggina di ogni tipo, dagli scoiattoli ai cervi, dai cinghiali ai lupi.
Ero ansioso di vedere Agla, di raccontarle dell’avventura della caccia, di abbracciarla e sentire di nuovo il suo corpo contro il mio.
Man mano che ci avvicinavamo a Karakorum, Ogotai era sempre più taciturno, più imbronciato. Sembrava quasi che stesse soffrendo, e quando avvistammo le nubi di polvere dei recinti che delimitavano la città il sovrano era chiaramente demoralizzato e depresso.
Ahriman entrò nei miei pensieri, e mi ritrovai abbattuto come il Gran Khan. Avevamo accantonato i nostri problemi, fuggendo per oltre una settimana, come ragazzini che marinassero la scuola, la i problemi erano là ad attenderci a Karakorum.
— Mio signore — dissi, accostandomi fino a sfiorare il suo cavallo — è giunto il momento che io affronti Ahriman.
— Cosa vuoi fare? Ucciderlo?
— Se sarà necessario.
Ogotai scosse il capo. — No. Niente spargimenti di sangue. Non lo permetto neppure a te, mio amico dell’Ovest. Ahriman ha il suo posto a Karakorum, come tutti gli uomini.
— Come tuo medico.
Ogotai non parve sorpreso dal fatto che fossi al corrente del ruolo di Ahriman. — Mi dà una pozione che mi aiuta a dormire, nient’altro.
— Non hai pensato che forse intende aiutarti a dormire per sempre?
— Veleno? — Ogotai si voltò, spalancando gli occhi sorpreso. Poi rise. Non rispose alla mia domanda; si limitò a ridere come se gli avessi raccontato la storia più buffa di questo mondo.
La sua reazione mi lasciò perplesso, così cercai di insistere sull’argomento, ma Ogotai non aveva più intenzione di discuterne. Aveva deciso che Ahriman e io non dovessimo scontrarci; ci aveva concesso la sua protezione, creando tra noi una situazione di stallo.
Almeno, era quello che pensavo mentre entravamo a Karakorum.
Era quasi notte quando smontammo nella fascia sgombra che circondava l’ordu per scaricare le tonnellate di carne dai carri. Si era radunata una folla enorme, che accolse con grida ed esclamazioni stupefatte il bottino impressionante che avevamo portato in città. Ye Liu Chutsai apparve al fianco di Ogotai e gli lesse una pergamena. Gli affari di stato stavano già assillando il sovrano prima ancora che avesse avuto il tempo di scrollarsi di dosso la polvere.
Scrutai tra la folla ma non riuscii a vedere Agla. Mi aspettava a casa, dissi tra me. Ogotai mi aveva donato il cinghiale che avevo ucciso, e adesso dei servi stavano prendendolo per scuoiarlo e conservarlo. Agla e io avremmo mangiato cinghiale per parecchie settimane.
Di Ahriman, nemmeno l’ombra, del resto non mi aspettavo che si mescolasse con la folla. Era una creatura che prediligeva l’oscurità e il silenzio; sarebbe andato da Ogotai più tardi, quando la città dormiva.
Infine il Gran Khan congedò i compagni di caccia, e io mi precipitai verso casa. Aprii la porta, immaginando che Agla stesse aspettandomi sulla soglia.
Invece… Non c’era. Guardai inutilmente nelle due stanze. Agla era scomparsa.
20
Non esitai un solo istante. Sapevo cosa era successo, quasi avessi assistito alla scena coi miei occhi. Uscii di corsa lungo i viottoli bui, verso il tempio di Ahriman. Il tuono rimbombava su di me, il cielo era solcato da lampi. La gente si stava affrettando a ripararsi prima che cominciasse a piovere. Continuai a correre, stringendo l’elsa del pugnale, rivivendo mentalmente la raccapricciante uccisione di Aretha.
Nonostante l’oscurità trovai il tempio di Ahriman, come se a guidarmi ci fosse stato un faro invisibile. L’aria era satura di umidità e crepitava di elettricità statica, mentre mi lanciavo verso la porticina scura. Un lampo squarciò il cielo a metà, illuminando per una frazione di secondo la costruzione di pietra, seguito dal brontolio minaccioso del tuono.
Irruppi all’interno, nelle tenebre del covo di Ahriman. Era accanto all’altare, le mani alzate come in preghiera, mi volgeva le spalle. Non esitai un istante; mi scagliai addosso a lui.
Ahriman si girò, con la stessa rapidità con cui lo stavo aggredendo, e mi respinse facilmente, quasi fossi un moscerino molesto.
Il colpo mi fece barcollare sul pavimento. Sbattei contro la parete e il pugnale mi sfuggì di mano.
— Sei uno sciocco — sibilò minaccioso Ahriman.
— Dov’è? Cosa le hai fatto? Sospirò e mi fissò, calmo. — È fuori, nella steppa, e ti sta cercando. Qualcuno le ha detto che non eri tornato con Ogotai e gli altri.
— È una bugia!
— Ma lei ci ha creduto. Adesso è là fuori, al buio, che ti cerca.
— Non ti credo.
Ahriman scrollò le spalle poderose. — È sola. I coraggiosi guerrieri della sua scorta hanno terrore dei temporali e l’hanno abbandonata. Sai, temono i fulmini. In sella a un pony in una distesa senz’alberi con un elmo d’acciaio in testa si diventa una specie di parafulmini naturale.
Avevo sentito parlare di guerrieri che si gettavano nei fiumi o nei laghi durante i temporali. E annegavano.
— Non le ho torto un capello — disse Ahriman, volgendo le spalle all’altare e ai simboli incisi nella pietra. — Non ce n’è bisogno.
Mi alzai lentamente. — No, ti sei accontentato di mandarla in mezzo alla bufera, sola.
— Allora perché non prendi un cavallo e vai a cercarla? Sarà felicissima di rivederti.
— È questo che vuoi, vero? Vuoi che lasci la città, così potrai andare da Ogotai a finire il tuo lavoro.
Non rispose.
— Lo stai avvelenando. E vuoi togliermi di torno così potrai ucciderlo.
Ahriman non mostrò alcuna reazione. Poi di colpo alzò il capo al soffitto e comincio a ridere, una risata aspra, un suono più simile a un rantolo, stridulo, offensivo.
— Avevo proprio ragione — disse infine, ansimando. — Anzi, sei ancor più sciocco di quel che pensavo… Uccidere Ogotai? Ucciderlo? — Rise di nuovo, e mi sembrò di sentire delle unghie che raschiavano della pietra.
Poi tornò serio e indicò la porta. — Vai, trova la tua donna. Io non le ho fatto nulla. Però con questa tempesta può succederle di tutto.
Non avevo scelta. Non potevo sfidarlo; era troppo forte per me. E anche se diffidavo delle sue parole, il pensiero di Agla sola nella notte mi spinse fuori dal tempio, verso i recinti dei cavalli ai margini della città.
Cominciò a piovere forte mentre chiedevo un cavallo al vecchio che badava al recinto più vicino. Il mio abbigliamento non lasciava dubbi sul mio rango elevato, e nel bagliore dei lampi il custode vide senz’altro la mia mole e il colore della pelle, capendo che ero lo straniero, l’emissario dell’Ovest. Il furto in pratica era qualcosa di sconosciuto tra i mongoli. Se non avessi riportato il cavallo entro un lasso di tempo ragionevole, dei guerrieri si sarebbero messi sulle mie tracce. E in nessun angolo del mondo sarei riuscito a sottrarmi alla loro giustizia implacabile.
— Non è il momento di uscire a cavallo allo scoperto — insisté il vecchio mentre sellavo il pony. — La tempesta può uccidere…
Lo ignorai e montai. Adesso stava diluviando, eravamo già fradici. Le dita dei lampi guizzavano in cielo in cerca di preda, e i tuoni squassavano assordanti la notte.
— Ucciderai il cavallo! — gridò il vecchio. Da autentico mongolo aveva riservato per ultimo il suo argomento più convincente.
Troppo tardi. Spronai i fianchi del pony che parti al galoppo in quell’inferno.