Sguainando il pugnale, tagliai adagio il tessuto spesso della parete e sgattaiolai attraverso la fenditura, penetrando nella tenda privata di Ogotai. Un altro drappo di seta era appeso alla parete interna, così riuscii a insinuarmi senza che nessuno mi vedesse.
La tenda era debolmente illuminata. Attraverso il tessuto non scorgevo che ombre sfocate. Però sentivo delle voci. La prima era quella di Ahriman. Rimasi immobile come una statua; non osavo neppure respirare per paura di muovere il drappo e tradirmi.
— Il sonno arriverà presto, mio Gran Khan — disse la voce tormentata di Ahriman.
— Il dolore è forte, questa notte — disse Ogotai.
— È l’umidità. Il tempo umido aggrava il dolore.
— E tu prepari una pozione più forte.
— È necessario, per scacciare il dolore.
— Ma il dolore sta vincendo, persiano. Ogni notte è sempre più intenso. Lo sento, nonostante le tue pozioni.
— Hai sofferto molto durante la caccia, mio signore?
— Abbastanza. Tiravo avanti grazie alla tua medicina. Ma se non fosse stato per Orion, adesso sarei morto.
Sentii che Ahriman si lasciava sfuggire un sospiro rauco.
— Predici ancora che cercherà di uccidermi? — chiese Ogotai.
— È un assassino, Gran Khan. È stato inviato qui per ucciderti.
— Non posso crederci.
La voce aspra di Ahriman assunse un tono di certezza assoluta. — La prossima volta che lo vedrai, Gran Khan, lui tenterà di assassinarti. Stai in guardia.
— Basta! — scatto Ogotai. — Se avesse voluto uccidermi, avrebbe potuto lasciare che fosse quel cinghiale a farlo. Mi ha salvato la vita, mago.
— E si è conquistato la tua fiducia.
Ogotai non rispose. Per lunghi attimi non sentii che il lamento del vento e il cigolio delle corde della tenda.
— Mio Gran Khan — sibilò Ahriman — tra un mese Subotai radunerà di nuovo le sue forze e riprenderà l’avanzata verso ovest, attraverso le terre dei principi di Germania, oltre il fiume chiamato Reno, entrando nel territorio dei franchi. Questi franchi sono validi guerrieri. Sono stati loro a respingere i saraceni molti anni fa. Sono loro che ancor oggi si battono contro gli ottomani vicino a Gerusalemme. Ma Subotai li schiaccerà e distruggerà le loro città. Raggiungerà il grande mare e pianterà il vessillo mongolo sulla riva. Dominerai su tutte le terre comprese tra i due oceani. L’Europa e l’Asia saranno interamente tue.
— Hai già fatto queste profezie — disse Ogotai, la voce stanca, spenta, assonnata.
— Certo — ammise Ahriman. — Ma non si avvereranno se il Gran Khan morirà e gli orkhon e i generali dovranno tornare a Karakorum per eleggere un nuovo imperatore. Orion lo sa. È per questo che deve eliminarti presto, entro pochi giorni, se vuole salvare l’Europa dalla conquista di Subotai.
— Capisco le tue parole, mago. Però non ci credo.
— Le mie profezie non ti hanno mai deluso, Gran Khan.
— Lasciami, mago. Lasciami dormire in pace.
— Io…
— Vattene — ordinò Ogotai.
Sentii i lunghi passi pesanti di Ahriman attraversare la tenda e scomparire nella notte. Restai dietro il drappo per parecchi minuti, mentre le lampade della tenda venivano spente una alla volta. Infine rimase accesa solo una lucina tremula.
Uscii dal mio nascondiglio. Il Gran Khan era steso sulle trapunte del letto; indossava una veste di lana grezza. Aveva il volto disfatto. Sudava. Ma era ancora sveglio, e mi vide.
Anche le guardie mi videro. Sei scimitarre guizzarono dalle guaine.
Ogotai fece un cenno con le mani. Le guardie si fermarono, stringendo le scimitarre.
— Vedono il pugnale che hai in mano, Orion — disse Ogotai — e temono che tu sia qui per uccidermi.
Solo allora mi resi conto di impugnare ancora l’arma. Aprii le dita, lasciandola cadere sul tappeto. Ogotai rivolse un nuovo cenno alle guardie, che riposero le scimitarre e uscirono dalla tenda.
Eravamo soli.
Ogotai sembrava svuotato di qualsiasi energia. Mi fissò, e lessi nei suoi occhi una sofferenza atroce.
— Sei venuto a compiere la profezia di Ahriman? Sei venuto a uccidermi?
— Se dovrò farlo.
Ogotai quasi sorrise. — Non è bene che un guerriero mongolo si tolga la vita. Ma ho un demonio nel corpo, Orion. Brucia come un tizzone rovente. Mi sta uccidendo lentamente, a poco a poco.
Un cancro. Per questa ragione Ahriman gli dava degli analgesici. Ma nemmeno le capacità di Ahriman potevano guarire un cancro a uno stadio troppo avanzato.
— Mio Gran Khan…
— Orion, amico mio, non posso cadere in battaglia. Sono troppo vecchio. Ho retto a malapena agli sforzi della caccia. Però puoi abbattermi tu. Puoi darmi una morte pulita, invece di questa lunga fine immonda.
Il respiro mi si bloccò in gola. — Come posso uccidere un uomo che mi considera suo amico?
— La morte vince sempre, alla fine. Si è presa mio padre, no? Prenderà anche me. L’unica domanda è quando… e quanto dolore mi attende ancora. Non sono un vigliacco… — Ogotai deglutì, e chiuse gli occhi per un istante — … ma credo di avere già sofferto abbastanza.
Rimasi lì accanto al letto, incapace di muovermi.
— Sei un amico fedele — disse Ogotai. — Esiti perché sai che se mi ucciderai non si avvererà la profezia di Ahriman: i mongoli non regneranno sul mondo intero.
Come potevo dirgli che era proprio per questo che dovevo ucciderlo?
— Preferisco la tua profezia, Orion. Meglio che i mongoli vivano in pace. Meglio che siano le altre nazioni a battersi e a lottare tra loro. Purché noi troviamo la pace… e la serenità…
Ogotai strinse ancora le palpebre e il suo corpo si inarcò come quello di un uomo sottoposto alla tortura della ruota.
Quando li riaprì, i suoi occhi erano umidi di lacrime. — Nemmeno la pozione di Ahriman serve a qualcosa, questa notte. Piango come una donna.
Portai la mano al fodero vuoto appeso alla cintura.
Ora il respiro di Ogotai era affannoso. — È meglio che gli altri non mi vedano così debole. Il Gran Khan non dovrebbe mostrarsi con le lacrime agli occhi.
Ricordai che tra i mongoli era proibito lo spargimento di sangue. Mi voltai e presi un cuscino dalla sedia accanto al letto.
Ogotai mi sorrise. — Addio, amico dell’Ovest.
Gli coprii la faccia col cuscino. Quando lo sollevai, anch’io avevo le lacrime agli occhi.
Uscii lentamente dalla tenda, oltrepassando le guardie ferme all’ingresso. La bufera era finita. L’alba stava tingendo di rosa il cielo. Tornai alla casa, montai a cavallo e abbandonai la città. Agla era ancora là nella steppa. Forse sarei riuscito a raggiungerla prima che i mongoli scoprissero cosa avevo fatto.
Vagai per due giorni e due notti, chiedendomi se Agla fosse sopravvissuta alla bufera, chiedendomi se i mongoli mi avrebbero dato la caccia, chiedendomi cosa stesse facendo Ahriman per vendicarsi di me.
La mattina del terzo giorno vidi un cavallo… le redini penzolavano nell’erba, la sella era storta, vuota. Stavo procedendo a piedi, e saltai in sella spronando i fianchi del mio pony, partendo al galoppo all’inseguimento del cavallo di Agla col cuore che mi batteva all’impazzata.
Poi vidi una figura stesa sul terreno… caduta accidentalmente o per la stanchezza. Mi piegai ancor di più sul collo del mio pony e mi lanciai in quella direzione.
Ma all’improvviso sembrò che la terra sprofondasse. Cadevo… precipitavo in una folle spirale… dibattendomi nel vuoto mentre un caleidoscopio di colori abbaglianti mi violentava i sensi. E una frazione di secondo più tardi, ecco che galleggiavo, nell’oscurità più completa, in una dimensione incorporea, senza tempo, senza peso.