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“Ormazd, sai cosa sia la sofferenza?” pensai. “Ti rendi conto della tua crudeltà?”

Eppure, mentre dicevo quelle parole nel mio intimo, avevo la sensazione che l’avrei incontrata di nuovo. Aretha, Agla, quale che fosse il suo vero nome, lei era legata a me, e io a lei, attraverso il tempo. Per quanti secoli potessero separarci, ci saremmo ritrovati. La mia era una certezza interiore.

Mi accorsi di essere supino. Drizzandomi a sedere, osservai il mio nuovo campo d’azione. Era un’ampia distesa d’erba fresca che scendeva dolcemente verso un fiume lontano. Lungo il corso d’acqua crescevano degli alberi, i primi che vedevo dopo chissà quanto. L’erba stessa era alta, aggrovigliata; non era mai stata tagliata, stando alle apparenze. Fiori selvatici punteggiavano il terreno di colori. Qui e là, affioravano spuntoni di rocce e macigni. Gli alberi in riva al fiume ondeggiavano scossi da un vento tiepido; spuntavano da un intrico di vegetazione che nascondeva la sponda. Non c’erano segni di civiltà; lì non c’era mai stato nessun essere umano.

La testa di un coniglio sbucò dall’erba. Mi fissò, contraendo le narici, poi mi si avvicinò. Non aveva paura. Mi esaminò per qualche secondo, e scomparve saltellando nell’erba altissima.

Mi guardai. I miei indumenti erano un semplice gonnellino di pelle e un giubbetto senza maniche. Nella cintura intrecciata che portavo in vita era infilato un coltello. Lo presi e vidi che era formato da un manico di pietra levigata e da una lama di selce scheggiata fissata in modo approssimativo con delle specie di viticci secchi.

Chiudendo gli occhi, cercai di capire dove potessi essere, e in che epoca. Evidentemente ero stato mandato ancora indietro nel tempo. Ahriman mi aveva detto che stavo tornando verso La Guera… Dal ventesimo secolo al tredicesimo, dal tredicesimo al…

Osservai nuovamente il rozzo coltello. A quanto pareva, mi trovavo nell’Età della pietra. Questa volta Ormazd non si era limitato a sbalzarmi indietro di qualche secolo; ero risalito nel tempo di almeno diecimila anni.

Dall’inferno di una reazione nucleare allo splendore barbarico della capitale dei mongoli, e adesso. … In un prato tranquillo, in una dolce mattina soleggiata. Un Eden dove gli esseri umani erano così rari che gli animali non li temevano. La civiltà non era ancora iniziata. I primi villaggi dovevano ancora sorgere. Le piramidi d’Egitto erano ancora lontane secoli e secoli. I ghiacci coprivano ancora gran parte dell’Europa, ritirandosi lentamente via via che l’Era Glaciale cedeva il posto a un clima più caldo.

Lì era primavera. I fiori sbocciavano ovunque. Gli insetti ronzavano e zampettavano tra l’erba.

Gli uccelli sfrecciavano e cantavano nel cielo. Dovevo essere molto più a sud dei ghiacciai, riflettei, o in una regione dove i ghiacciai non si erano mai spinti.

Mi alzai. Era una zona bellissima, serena, incontaminata dall’uomo. Eppure ero consapevole che se Ormazd mi aveva mandato lì, era perché c’erano degli esseri umani in quel luogo e in quell’epoca. E c’era anche Ahriman. Quel posto rappresentava una connessione fondamentale nel continuum, un punto chiave dove Ahriman intendeva alterare il corso degli eventi. E io dovevo bloccarlo, a tutti i costi, e ucciderlo se possibile.

A tutti i costi. Contrassi la faccia in una smorfia di rabbia e frustrazione. Cosa significava la morte per uno come Ahriman? O per me? Dolore, il trauma della separazione, della perdita. Ma era tutto temporaneo. Un attimo, un battito di ciglia, e secoli e millenni si dissolvevano, e noi eravamo ancora vivi, esistevamo ancora, solo per ricominciare il ciclo: cacciatore e vittima, preda e predatore… uccidere o essere uccisi. Sarebbe continuato per sempre? Non c’era pace in tutto lo spazio-tempo? Non c’era un posto dove riposarmi e vivere da uomo normale?

Tu sei Orion, mi disse una voce interiore. Il Cacciatore. Devi trovare Ahriman, e ucciderlo. Attraverso tutti gli eoni del tempo, se necessario. Devi stanare il Tenebroso e distruggerlo prima che riesca a distruggere il genere umano. Questo è lo scopo per cui sei stato creato. Non chiedere altro.

Sapevo che era un ordine dell’onnipotente Ormazd, e non mi restava che obbedire.

Sapevo che era inutile chiedere il riposo, l’amore o semplicemente l’oblio della fine dell’esistenza; Ormazd non mi avrebbe concesso nulla. Dovevo eseguire gli ordini. Però non era detto che dovessero piacermi per forza. Ormazd non sarebbe mai riuscito a far sì che lo servissi volentieri, con gioia. Agivo per costrizione, e per senso del dovere verso i miei simili. Non perché amassi o rispettassi il Dio della Luce.

M’incamminai diretto al fiume. Era bello, all’inizio, passeggiare tranquillamente sotto il sole. Ero scalzo, e sorrisi pensando che adesso non avevo nemmeno i sandali portati nel periodo dei mongoli, i sandali che avevano attirato l’attenzione di Ogotai. Ma il mio sorriso si spense al ricordo del sovrano, delle sue sofferenze, del modo in cui avevo assassinato l’uomo che aveva concesso la sua amicizia a uno straniero giunto dal futuro.

Lungo la riva del fiume, il cammino diventò disagevole; la vegetazione era un intrico di cespugli. Dei rovi mi graffiarono le braccia e le gambe nude mentre mi aprivo un varco. Finalmente raggiunsi il bordo dell’acqua, sotto gli alberi che stormivano cullati da una brezza piacevole.

Il fiume era calmo, pigro; serpeggiava lento attraverso la prateria. Mi inginocchiai e bevvi l’acqua limpida. Sulla destra vidi una fila di pietre che increspavano la superficie; erano state disposte in modo tale da formare un sentiero sull’acqua. Il primo segno della presenza di esseri umani: un guado.

Attraversai il fiume e cominciai a salire lungo il lieve pendio che portava a una catena di collinette. Giunto sulla sommità, vidi che il terreno diventava più accidentato, seghettato da una serie di colline sempre più alte. E in lontananza, sospesa come un fantasma in una foschia azzurrognola, si ergeva una strana montagna che culminava in due picchi. Uno dei coni era coperto di neve sulla sommità, ma la neve era interrotta da striature grigie, e una striscia sottile di fumo saliva tremula e si perdeva nel cielo.

Un vulcano attivo, assopito. Il profilo di quella montagna mi ricordava qualcosa, qualcosa che però mi sfuggiva.

Scossi la testa e mi girai per scendere dall’altura. La prateria in riva al fiume mi sembrava migliore di quella zona frastagliata.

Fu allora che li vidi. Stavano salendo il pendio sulla mia destra, a una cinquantina di metri. Stagliate contro il vivido cielo primaverile, una trentina di persone procedevano in fila nella direzione in cui mi trovavo.

Sbattei le palpebre. Per un attimo pensai che fossero mongoli, di non aver viaggiato nel tempo. Ma erano a piedi, non a cavallo. Ed erano snelli, di carnagione chiara, con lunghe chiome incolte rossastre. Erano vestiti di pelli, come me. Erano incrostati di sporcizia, e la brezza portava fino a me il loro odore. Alcuni cani scheletriti e rognosi li accompagnavano. Mostrarono i denti, ringhiando, ma rimasero accanto ai loro padroni.

L’uomo con la barba rossa che guidava il gruppo reggeva un palo con il cranio di un animale cornuto sulla sommità. Lo alzò e si fermò così all’improvviso che i bambini in fondo alla fila andarono a sbattere contro gli adulti che li precedevano, facendo oscillare tutta la fila. Stavo per ridere… ma notai che tutti gli uomini, e gran parte delle donne più giovani, stringevano lunghe aste con la punta annerita e indurita dal fuoco. Anche il palo del totem del gruppo era in realtà una lancia.

Per parecchi secondi mi fissarono a bocca aperta, con espressioni che erano un misto di stupore, curiosità e paura. Portarono le mani ai coltelli di pietra. Molti di loro spostarono le aste nodose in posizione di lancio. Vidi che tutte le donne erano armate, almeno di coltello; e anche i bambini più grandi avevano dei bastoni o delle clave. I cani continuavano a ringhiare.