Un clan di cacciatori dell’Età della pietra, agli albori della storia umana. Sporchi, arruffati, scarni e afflitti da una fame costante, e tremendamente diffidenti verso gli estranei. Eppure erano umani. Come me. Forse, più di me.
Continuando a tenere alto il braccio, il capo mi studiò attentamente. Una giovane donna gli si affiancò. Il cuore mi balzò in gola. Era rossa di capelli, come tutti gli altri, rossa e sporca. Ma anche da quella distanza non avevo dubbi: era Agla/Aretha.
Non sembrò riconoscermi, però. Vidi che parlava al capo, ma troppo sottovoce perché sentissi le parole.
Il capo zittì i cani con un gesto, poi si girò e rivolse un gesto a due giovani della fila. I due si guardarono in faccia nel classico atteggiamento tipo: Perché proprio io? Ma, sebbene controvoglia, si avviarono lungo il pendio, verso di me, brandendo le loro aste. Il resto del clan si raccolse attorno al capo formando un semicerchio… pronti ad attaccarmi o a scappare ridiscendendo il crinale, a seconda degli sviluppi della situazione.
I due che stavano avvicinandosi erano adolescenti, l’equivalente preistorico della carne da cannone. Erano imberbi, ma i loro capelli ramati scendevano fin sulle spalle, e avevo quasi l’impressione di vedere le colonie di parassiti che si aggiravano in quelle masse spettinate. I loro muscoli e i tendini erano tesi allo spasimo. Le nocche che stringevano le lance erano bianche per lo sforzo. Erano troppo magri e scavati in viso per avere un’aria veramente feroce, comunque la grinta non gli mancava.
Alzai le mani, sperando che lo interpretassero come un gesto di pace. Almeno avrebbero visto che ero disarmato. Si fermarono a una decina di metri da me… abbastanza vicini da infilzarmi, se non fossi stato abbastanza svelto da impedirlo.
— Chi sei? — chiese quello a sinistra, con una voce fessa e tentennante.
Capivo la loro lingua. Niente di sorprendente. Senza dubbio, Ormazd mi aveva programmato in modo che la capissi, durante la breve transizione da un’era all’altra. Se potevo conversare coi mongoli o con gli americani del ventesimo secolo, perché non avrei dovuto essere capace di comunicare con quei primitivi in una lingua morta da millenni?
— Sono un viaggiatore, giunto da lontano — risposi.
— Cosa fai qui? — chiese l’altro. La sua voce era un po’ più profonda, ma tremava come quella del compagno. Mentre parlava, alzò l’asta, pronto a scagliarla.
Tenni le mani staccate dal corpo. Sapevo che avrei potuto spezzare sia le aste che le loro ossa, volendo. Però dubitavo di riuscire a tener testa a tutto il gruppo se avessero deciso di attaccarmi.
— Vengo da molto lontano — dissi, alzando la voce perché anche il capo mi sentisse. — Ho viaggiato molto, per molto tempo. — Ed era vero, no? — Sono uno straniero nella vostra terra e cerco il vostro aiuto e la vostra protezione.
— Viaggiato? — chiese il secondo. — Da solo? Hai viaggiato da solo?
— Sì.
Il giovane scosse la testa. — Menti! Nessuno può viaggiare da solo. Le bestie o gli spiriti dei morti lo ucciderebbero. Nessuno cammina da solo, senza un clan.
— Dico la verità — replicai. — Ho viaggiato a lungo, da solo.
— Appartieni a un altro clan. Sono nascosti qui vicino, per farci cadere in un’imboscata.
Dunque, anche lì esisteva la guerra. Anche lì si ammazzava. Fui colto da una tristezza intensa. Perfino in quell’Eden gli uomini si uccidevano a vicenda. Spostai lo sguardo oltre i due ragazzi sospettosi, sulla giovane accanto al capo. I suoi occhi incontrarono i miei. Erano grigi e profondi come quegli occhi che conoscevo così bene. Ma non mi riconobbero, non esprimevano la minima traccia di comprensione… Era una donna del suo tempo, una cacciatrice dell’Età della pietra, selvaggia e incivile come tutti gli altri.
— Sono solo — ribadii. — Non ho clan. È per questo che voglio unirmi a voi. Sono stanco di star solo. Cerco la vostra amicizia.
I due giovani si voltarono un attimo verso il capo, poi tornarono a studiarmi.
— Non puoi essere del Clan della Capra — disse quello con la voce più virile. — Chi è tua madre? Chi è tuo padre? Non sono del Clan della Capra. Tu non sei del Clan della Capra.
Era un discorso semplicissimo per loro. O si nasceva nel clan, o si era uno straniero, una minaccia, un pericolo. Forse si poteva entrare nel clan sposandosi, ma era più probabile che fossero i maschi a portare la moglie nel loro clan. Le donne potevano essere oggetto di scambio continuo, ero pronto a scommettere. E il teschio cornuto sul palo del capo era quello di una capra. Sorrisi tra me. La capra è un animale resistente, disposto a mangiare in pratica qualsiasi cosa, e duro come la selce che quella gente usava per costruire attrezzi e armi.
— È vero, non sono del vostro clan. Non ho clan. Mi piacerebbe stare con voi. Non è bene per un uomo star solo.
I due esitarono, guardando di nuovo il capo. Il capo stava grattandosi la barba rossa, meditabondo. Era la prima volta che si trovava ad affrontare un problema del genere.
— Posso aiutarvi — insistei. — Sono un buon cacciatore. Il mio nome è Orion. Significa Cacciatore.
Rimasero a bocca aperta. Dal primo all’ultimo. Anche i cani adesso sembravano più circospetti.
— Sì — dissi. — Orion significa Cacciatore. Quali sono i vostri nomi? Cosa significano?
I due giovani cominciarono a urlare e ad agitare le aste. Avevano le pupille dilatate per la rabbia e la paura; stavano sudando abbondantemente, e le vene del collo gli pulsavano in modo furioso.
Dietro di loro, il clan fu scosso da un ruggito generale. Senza alcun segnale da parte del capo, tutti alzarono le armi e si precipitarono verso di me, cani compresi. I due ragazzi continuavano a fare oscillare le lance avanti e indietro, cercando di trovare il coraggio di attaccare sul serio.
Presi una decisione estremamente rapida e umana. Mi girai e scappai. Non volevo spaventarli ancor di più, o rischiare di essere travolto e ridotto a brandelli dalle loro armi primitive. Così corsi via, il più velocemente possibile.
Mi lanciarono le loro aste, ma le schivai senza difficoltà. La loro carica non seguiva uno schema ordinato; con la coda dell’occhio, vedevo le aste che solcavano il cielo traballanti a intervalli irregolari, così lente che avrei potuto afferrarle al volo. Ma preferii scansarle.
Mi inseguirono, però come velocità e resistenza mi erano nettamente inferiori. Nemmeno i cani riuscivano a starmi dietro. E poi, stavano solo cercando di cacciarmi via; si corre sempre meglio quando invece si deve salvare la pelle. In meno di un minuto ero già fuori tiro. Il loro capo mi fece seguire da una squadra di quattro uomini, ma staccai subito anche quelli. Scesi verso il fiume, arrancai attraverso la massa di cespugli della riva, e mi tuffai in acqua dando una panciata tremenda.
Raggiungi a nuoto l’altra sponda e mi trascinai tra la vegetazione. I miei inseguitori si fermarono sulla riva opposta, indicando nella mia direzione, gridando rabbiosi, ma non accennarono neppure a entrare in acqua. Idem i cani.
Dopo un po’, fecero dietrofront e raggiunsero il resto del gruppo. Al che uscii allo scoperto e mi stesi sull’erba per lasciarmi asciugare dal sole pomeridiano.
23
Quella sera avevo capito cosa li avesse sconvolti tanto. I nomi. Le tribù primitive nutrono una diffidenza naturale verso gli sconosciuti, e in un luogo scarsamente popolato come quello gli stranieri dovevano essere molto rari. I primitivi sono anche molto superstiziosi riguardo i nomi. Perfino nel periodo dei mongoli nessuno osava pronunciare il nome di Temucin, Gengis Khan.
Per quei cacciatori dell’Età della pietra, il nome di una persona ne racchiudeva l’anima e la forza. Dire il proprio nome a uno sconosciuto significava esporsi inutilmente, scoprirsi, attirare su di sé sortilegi e pericoli… come dare volontariamente ritagli di unghie o ciocche di capelli a una maga voodoo.