Ripensando all’incontro del pomeriggio, mi rendevo conto di averli scioccati rivelando non solo il mio nome, ma anche il suo significato. E quando avevo chiesto i loro nomi, mi avevano attaccato. Evidentemente credevano che fossi un demone o uno stregone. Prima li avevo spaventati, poi li avevo terrorizzati.
Mentre il sole calava dietro le colline rocciose di là dal fiume, e il cielo si incendiava di rosso e porpora, scelsi un punto coperto di muschio accanto a un albero per coricarmi e dormire. Di solito mi bastavano un paio d’ore di riposo, ma mi sentivo stanco fisicamente e mentalmente esausto.
Poi il ruggito lontano di un leone a caccia echeggiò nell’oscurità. A malincuore, mi alzai dal morbido giaciglio e mi arrampicai sull’albero. Un paio di scoiattoli mi accolsero con squittii rabbiosi, quindi tornarono a infilarsi nella loro tana. Trovai un incavo sufficientemente robusto e mi sistemai. La corteccia era scabra e dura, ma mi addormentai quasi subito, pensando ad Agla.
Ma fu Ormazd ad apparirmi in sogno.
Non era un sogno; era un contatto voluto. Lo vidi brillare nell’oscurità della notte, i capelli sfolgoranti, il volto sorridente, eppure non aveva un’espressione felice né soddisfatta.
— Hai trovato la tribù. — Non era una domanda, né un’ammissione di successo… solo una constatazione. Ormazd era vestito d’oro, splendeva. Era seduto, ma non riuscivo a vedere su cosa.
— Sì, li ho trovati. Ma li ho spaventati, e mi hanno respinto.
— Ti guadagnerai la loro fiducia. Devi.
— Sì — dissi. — Ma, perché? Cos’ha di tanto importante un branco di primitivi?
Ormazd era imponente e radioso come un dio greco. Ma studiando più attentamente il suo volto, notai che era un dio turbato, stanco della lotta e delle domande inutili dei comuni mortali.
— Il Tenebroso vuole distruggere questo… branco di primitivi, come li definisci tu. Devi impedirglielo.
Volevo rispondergli di no, dirgli che non avrei obbedito se non mi avesse restituito la donna che amavo, sana e salva, libera dalle angosciose separazioni di quella caccia interminabile attraverso il tempo. Avevo quel pensiero nella mente, la richiesta sulle labbra.
Invece mi ritrovai a domandargli sottomesso: — A cosa può servire ad Ahriman l’eliminazione di un clan di cacciatori dell’Età della pietra? Che ripercussione può avere una azione del genere sulla storia dell’umanità?
Ormazd mi fissò sprezzante. — E a te che importa? Tu devi pensare solo a uccidere Ahriman. Hai già fallito due volte, anche se sei riuscito a ostacolare i suoi piani. Ora sta braccando questo clan di primitivi; per cui tu userai il clan come esca per colpirlo. Semplicissimo, no?
— Ma perché proprio io? — protestai. — Perché sono stato strappato dalla mia epoca per dare la caccia ad Ahriman? Non sono abbastanza forte per ucciderlo… questo dovresti saperlo! Perché non lo affronti tu? Perché devo morire, quando non capisco nemmeno…
— Già, non capisci, tu! — La voce di Ormazd d’un tratto esplose come un tuono, e lo splendore che irradiava divenne accecante. — Sei lo strumento prescelto per la salvezza della razza umana. Non fare domande inutili, e fai invece il tuo dovere!
Dovetti schermarmi gli occhi con le mani, ma non mi arresi. — Ho il diritto di sapere chi sono, e perché sono costretto a questo ruolo.
Gli occhi di Ormazd erano più brucianti del fuoco nucleare che mi aveva ucciso diecimila anni nel futuro.
— Dubiti di me? — tuonò. Più che una domanda era una minaccia.
— Ti accetto. Però continuo a non capire. Un tempo avevo una mia vita privata, vero? Se devo morire, almeno…
— Morirai e rinascerai tutte le volte che sarà necessario.
— No!
— Sì. Devi morire per poter rinascere. Non esiste altro sistema per muoversi nel tempo, non per te e i tuoi simili. Gli esseri mortali possono spostarsi nel tempo solo attraverso la morte.
— Ma la mia splendida donna, Agla… Aretha… e lei, allora?
Ormazd serrò le labbra per parecchi istanti, prima di rispondere abbassando la voce: — È in pericolo. Ahriman la minaccia. Vuole distruggere lei, e me, e tutto il continuum. Se vuoi salvarla, devi uccidere Ahriman.
— È vero che tu, la tua razza… Ebbi un attimo di esitazione.
— …È vero che avete sterminato la razza di Ahriman, tutti, tranne lui?
— È stato lui a dirtelo?
— Sì.
— È il Re della Menzogna.
Non era una risposta, mi resi conto. Ma da Ormazd non avrei cavato altro.
— Quando si è svolta La Guerra? — chiesi. — Cos’è successo?
— Questo dovrai scoprirlo per conto tuo — rispose Ormazd, cominciando a dissolversi. — E per me — soggiunse.
Restai di sasso. — Aspetta! Vuoi dire che nemmeno tu sai cosa sia successo? Non sai come si sia svolta La Guerra? Non sai cos’abbia fatto la tua razza alla sua?
Ma ormai Ormazd era solo un puntino di luce risucchiato dall’oscurità. Sentii la sua voce che mi giungeva da molto lontano:
— Perché pensi che la mia razza e la tua non siano la stessa, Orion? Non siamo padre e figlio?
Sussultando, mi accorsi di fissare il cielo stellato. Le stelle ammiccavano dalle profondità dello spazio; mi aggrappai alla scorza rugosa dell’albero, allora, e cercai lassù un’ombra di significato. Cercai la costellazione di Orion, ma non la trovai.
24
Per giorni interi seguii il Clan della Capra nella sua marcia attraverso il paesaggio del Neolitico. Dovevo farmi accettare, ma quelli erano xenofobi convinti; o si nasceva nella tribù o si diventava membri sposando uno del clan, altrimenti si era considerati stranieri, da evitare e da temere.
Ma gli ordini di Ormazd erano chiari. Dovevo salvare quel clan dalle trame di Ahriman, qualunque esse fossero. Dovevo usare il clan per intrappolare il Tenebroso.
E la donna, quella dagli occhi grigi la cui bellezza spiccava nonostante gli strati di sporcizia e di ignoranza, era la stessa che avevo conosciuto come Agla, e Aretha. Però non dava segno di avermi riconosciuto. Rinasceva ogni volta con me, ma senza ricordare le vite precedenti? Perché Ormazd voleva che fosse così?
Credevo di sapere la risposta. Lei era il mio punto di riferimento locale, indigena del posto e dell’epoca come gli altri membri del clan. Se fossi riuscito a farmi accettare da lei, anche i suoi compagni mi avrebbero accettato.
E io volevo che mi accettasse. Certo! Volevo che mi amasse, come mi aveva amato a diecimila anni di distanza, come io l’amavo sempre.
Purtroppo erano un branco di selvaggi paurosi e superstiziosi, e il loro istinto primario era quello di stare alla larga dall’ignoto… e uccidere gli estranei.
Li osservai da lontano. Per gran parte del tempo cacciavano; le donne più giovani battevano i cespugli in cerca di conigli, scoiattoli e qualsiasi altro animale fosse possibile stanare, mentre gli uomini si spingevano più lontano a caccia di prede più grosse quasi sempre con risultati nulli. Le donne anziane restavano accanto al fuoco del loro campo, curando i bambini e raccogliendo piante e bacche commestibili.
Al tramonto si raccoglievano tutti attorno al fuoco. Le donne preparavano miseri pasti, gli uomini fabbricavano nuovi attrezzi servendosi delle scorte di selce che portavano in sacche di pelle o indurivano sulla fiamma la punta delle loro lance. Era un gruppo chiuso e autosufficiente, che viveva dei frutti della terra, che riusciva a non morire di fame a patto di non produrre troppa prole. Gli ecologi del ventesimo secolo guardavano preoccupati la cosiddetta cultura usa-e-getta dell’uomo moderno, e indicavano come esempio le tribù primitive che, secondo loro, vivevano in armonia con la natura. Bene, io invece stavo proprio assistendo alle origini della cultura dell’usa-e-getta. Questi cacciatori del Neolitico arrivavano in un posto dove accamparsi, tagliavano cespugli e rami per accendere il fuoco, uccidevano tutta la selvaggina che gli capitava a tiro, e quando avevano finito di mangiare gettavano in giro le ossa. E lasciavano dietro di sé una scia di frammenti di selce, armi e attrezzi inservibili.