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Il fumo dei loro fuochi non nuoceva alla purezza dell’aria del Neolitico. I loro mucchi di rifiuti non inquinavano il terreno e la falda freatica. Le loro battute di caccia non mettevano in pericolo la sopravvivenza di nessuna specie animale. Ma l’atteggiamento di quei cacciatori nomadi si sarebbe trasmesso a tutte le generazioni future. Finché si era trattato di poche bande sparse di cacciatori primitivi, nessun problema: i gravi problemi per l’ambiente erano iniziati quando i discendenti di quei cacciatori erano diventati qualche miliardo di persone. Comunque, nonostante tutto, non potevo fare a meno di sorridere osservandoli, e pensavo alle ipotesi assurde che i moralisti ecologisti del ventesimo secolo facevano riguardo ai popoli primitivi.

Ma sorridendo non avrei portato a compimento la mia missione. Dopo parecchi giorni di osservazione, perlopiù rimanendo nascosto, ma ogni tanto mettendomi bene in vista perché mi vedessero e capissero che li stavo seguendo, escogitai un sistema per farmi accettare dal clan.

Mi ero vantato di essere un abile cacciatore. Falsa pubblicità; l’unica volta che ero andato a caccia era stato al fianco di Ogotai, nella grande battuta organizzata dai mongoli. Però sapevo che i miei sensi e i miei riflessi erano migliori dei loro, che in quanto a resistenza fisica e abilità godevo di un notevole vantaggio. Dopo averli osservati inseguire la selvaggina e costruire le loro trappole rudimentali, e restare quasi sempre a mani vuote, mi resi conto di poterli battere su quel terreno.

Così cominciai a catturare della selvaggina e a lasciarla accanto al fuoco quando dormivano. Erano creature innocenti, e di notte non mettevano nessuno di guardia al campo. Il fuoco li proteggeva dagli animali pericolosi, e le altre tribù dovevano essere troppo lontane per rappresentare una minaccia. Per me era facile lasciare al campo un paio di volatili o di conigli che avevo stanato dai cespugli e ucciso a sassate.

Dopo parecchi tentativi, riuscii a costruirmi un arco e imparai a fabbricare frecce che avessero una traiettoria appena decente. Abbattei un daino con la mia nuova arma, anche se poi dovetti finirlo col coltello. Depositai la preda vicino al loro fuoco prima dell’alba.

Ogni mattina li osservavo, stando nascosto. Dapprima si mostrarono allibiti, chiedendosi come fosse apparsa in mezzo a loro la selvaggina morta. Ne discussero per ore e ore, e alcuni membri del clan sembravano propensi a credere che l’impresa fosse opera di qualche compagno. Ma nessuno ammise di averlo fatto, e dopo avere trovato per diverse mattine quei doni inattesi, tutti cominciarono a rendersi conto che quella era opera di un estraneo.

Questa constatazione li rese apprensivi, anche se mangiavano tranquillamente la cacciagione. Però di notte cominciarono a piazzare delle sentinelle. All’inizio si trattava di giovani assonnati, il che mi permetteva di scivolare nel campo abbastanza facilmente. Poi fu la volta di uomini adulti, che comunque solo di rado erano abbastanza attenti da impedirmi di portare i miei doni accanto al fuoco.

Gradualmente, cominciai a lasciare che mi vedessero, sempre da lontano. Stringevo nella mano alzata qualche volatile o portavo un daino sulle spalle. I primitivi si ammassavano e mi fissavano intimoriti. Di notte mi avvicinavo al campo e ascoltavo i loro discorsi, e prima dell’alba me ne andavo lasciando il trofeo con cui mi avevano visto il giorno precedente.

Ben presto divenni una leggenda. Orion era alto più di tre metri. I suoi occhi sprizzavano fiamme. Attraversava i fiumi con un balzo e fermava le lance a mezz’aria col suo sguardo di fuoco. Era un cacciatore eccezionale, capace di abbattere un mastodonte da solo.

I discorsi sui mastodonti mi interessavano. Apparentemente, i clan si riunivano durante l’estate e cacciavano gli animali più grossi. Gli anziani, uomini dai trentacinque ai quarant’anni, raccontavano storie di grandi battute in cui spingevano interi branchi di mostri irti di zanne oltre il bordo di un dirupo e poi banchettavano con la carne delle prede fino a scoppiare.

Ascoltai anche i nomi che usavano tra di loro, e scoprii che il capo barbuto era Dal e l’adolescente dalla voce fessa era Kralo. La donna che avevo amato in altre epoche lì veniva chiamata Ava… ed era la donna di Dal, constatai presto. Fu un duro colpo. Vagai per giorni e giorni lontano dal clan, sentendomi solo e tradito da una donna che non possedeva nessuno dei miei ricordi, che mi aveva visto per la prima volta il giorno in cui avevo incontrato e spaventato il clan. “Cosa ti aspettavi?” riflettei rabbioso. “A questi selvaggi mancano il tempo e i mezzi per permettere alle donne un’esistenza che non sia di coppia. Credevi che lei ti avrebbe aspettato? Non sapeva nemmeno che c’eri, fino a qualche settimana fa. E anche adesso pensa che tu sia un demone o un dio, non un uomo che l’ama e la vuole per sé.”

Eppure continuai a tormentarmi, pieno di autocommiserazione e di una rabbia a stento repressa verso Ormazd, che mi aveva sbattuto in una simile situazione senza tenere conto dei miei sentimenti.

Dopo tre giorni trascorsi a curare il mio cuore ferito, mi accorsi che un atteggiamento del genere non serviva né a me né al clan. Decisi di tornare a dedicarmi al compito che mi era stato assegnato. Tanto, non potevo fare nient’altro. Ero una semplice pedina nel gioco di Ormazd, e i sentimenti di una pedina non hanno alcuna importanza per chi muove i pezzi sulla scacchiera.

Quella notte mi avvicinai furtivo al campo e sentii che si chiedevano come mai il potente Orion li avesse abbandonati. Cosa avevano fatto per offenderlo? Per poco non scoppiai a ridere. Gli eventi miracolosi facevano presto a diventare comuni! I doni che prima li avevano spaventati adesso rientravano nella norma. Era l’assenza dei doni a preoccuparli.

Decisi di offrire al clan un vero dono. Pensai alle marce che compivano ogni giorno, alla distanza tra un campo e quello successivo. Evidentemente si spostavano con un obiettivo preciso in mente. Calcolai dove si sarebbero accampati tra due giorni e mi diressi in quella zona. Notai. con piacere che il posto in cui arrivai era già stato usato precedentemente come campo: accanto a un ruscello gorgogliante c’erano un tratto annerito da chissà quanti fuochi e un mucchio di ossa.

Quella notte e il giorno seguente li passai cacciando sul serio. Col mio arco traballante e una fionda che mi ero costruito, misi insieme una quantità enorme di selvaggina per il clan: conigli, uccelli, cervi, perfino un cinghialetto succulento. Lasciai il cibo nel futuro accampamento, e iniziai una lunga sorveglianza per difenderlo dai cani selvatici e da altri mangiacarogne.

I cani rappresentavano il problema maggiore. Non avevano niente in comune con quelli semiaddomesticati del clan; erano specie di lupi, feroci e intelligenti. Cacciavano in branchi, e mi avrebbero travolto e ucciso se non fossi stato più svelto e più furbo di loro. Anche se mi dispiaceva farlo, dovetti ucciderne parecchi prima che si decidessero ad andarsene.

Sorvegliai la selvaggina per tutta la notte e gran parte del giorno seguente. Finalmente, verso il tramonto, scorsi all’orizzonte l’avanguardia del clan, due adolescenti che Dal spesso mandava in avanscoperta. Attraversai il ruscello e mi nascosi tra la vegetazione sull’altra sponda.

I ragazzi videro il mucchio di selvaggina e cominciarono a saltare e a urlare come ossessi. Gli altri membri del clan si affrettarono a raggiungerli, restarono a bocca aperta, quindi corsero verso il campo. Erano fuori di sé dalla contentezza. Era la prima volta che vedevano tanta selvaggina. Si raccolsero attorno alla cacciagione, sferzando l’aria per allontanare le mosche, e fissarono allibiti quella montagna di carne.