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Stando a quel che sentii da Dal e dagli altri, parecchi clan imparentati da legami matrimoniali vivevano generalmente nella stessa zona durante l’estate. Adesso eravamo diretti al campo estivo, tra le colline in prossimità del vulcano sormontato dai due picchi che dominava il paesaggio. I clan avrebbero trascorso l’estate insieme, abbastanza vicini da permettere visite, corteggiamenti, matrimoni, e scambi di storie e informazioni. In autunno, ognuno sarebbe andato per la propria strada, marciando verso i territori dove svernare, a sud.

Anche Ava mi riservava un atteggiamento sospettoso. Ma i suoi timori erano di carattere soprannaturale. Era la sciamana del clan, un misto di guaritrice erborista, sacerdotessa, psicologa, e consigliere di Dal. Era divertente notare in che fase remota della storia umana i ruoli di sacerdote, dottore, e eminenza grigia si fossero fusi insieme.

Ava mi camminava a fianco quasi tutti i giorni, ma il suo interesse per me sembrava puramente professionale. Voleva assicurarsi che non fossi un demone, ed eventualmente essere pronta a intervenire prima che potessi fare del male al clan. Continuava a farmi delle domande sul mio luogo d’origine e il mio clan. Non mi dispiaceva; ero contento di stare con lei, anche se sapevo che ogni notte, quando dovevo allontanarmi dal fuoco, lei dormiva con Dal.

Avevo immaginato che la sciamana del clan dovesse essere una vecchia, una arpia rimasta vedova del compagno o mai stata capace di attrarne uno. Fui sorpreso, all’inizio, che una donna giovane come Ava svolgesse quella mansione, soprattutto dal momento che era la compagna di Dal. Poi mi resi conto che non c’erano vecchie nel clan. Non c’erano donne che avessero superato i trent’anni, a quanto potevo vedere. I due anziani del clan, del resto, non dovevano avere più di quarant’anni; le loro barbe incolte erano appena striate di grigio. Ma non c’erano donne coi capelli grigi nel Clan della Capra. E degli otto bambini, solo tre erano femmine; una era una neonata portata ancora sulle spalle dalla madre.

Chiesi ad Ava cosa succedesse alle donne con l’avanzare dell’età.

— Muoiono — rispose lei tranquillamente. — I loro spiriti abbandonano i corpi.

— Come muoiono?

Ava scrollò le spalle. — Molte volte muoiono nel mettere al mondo i bambini, o poco dopo. Alcune sono troppo malate o deboli per seguire la marcia del clan.

— E le abbandonate?

I suoi occhi grigi mi fulminarono. — Certo che no! Facciamo uscire il loro sangue, perché i loro spiriti possano rimanere con noi. Non permettiamo che lo spirito di uno del clan vada in giro per il mondo tutto solo.

— Capisco — dissi, e lasciai cadere il discorso. Inutile chiederle dell’infanticidio selettivo delle femmine. Si capiva che era una pratica in vigore, contando i bambini.

In quella vita ardua di cacce e di marce, le donne erano un peso morto. Erano necessarie per la procreazione, certo; però troppe donne significa troppi bambini, troppe bocche da sfamare. Così, le bambine venivano selezionate ed eliminate alla nascita. E quando una donna non era più in grado di partorire, la sua utilità in seno al clan terminava, e il clan si sbarazzava di lei. Non che gli uomini vivessero molto più a lungo: le malattie e gli incidenti facevano numerose vittime, e se non bastavano c’era sempre la guerra.

I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse provvedevano a risolvere i problemi di sovrappopolazione coi rigori del Neolitico, mantenendo un equilibrio costante.

Senza accorgermene, io stavo alterando quell’equilibrio. Mi occorsero parecchie settimane per rendermene conto. Ma insegnando al clan a costruire archi e frecce, a scavare trappole per animali, cominciai a capire che stavo modificando l’equilibrio ecologico di quell’era, anche se in modo lieve. Perché non era prestabilito che gli uomini dovessero vivere in piccoli gruppi sparsi, costantemente in lotta per non morire d’inedia. Solo la mancanza di conoscenze e di attrezzi adatti rendeva quei cacciatori così deboli e vulnerabili. Con le conoscenze giuste e attrezzi migliori, sarebbero diventati i padroni del mondo.

E infine avrebbero costruito bombe atomiche e metropoli soffocate dai rifiuti che producevano, lo sapevo. Eppure, svegliandomi ogni mattina in quell’alba della storia umana e osservando quei poveracci che si accingevano ad affrontare un altro giorno con mezzi praticamente inesistenti a parte le loro mani, capivo che la mia scelta era l’unica che potessi fare. Erano parte di me, umani come me. Rifiutando di aiutarli sarebbe stato come se mi fossi rifiutato di respirare. Indipendentemente dalle conseguenze, dovevo scegliere la vittoria della vita sulla morte, della conoscenza sull’ignoranza, dell’umanità su tutte le altre forme di vita esistenti al mondo.

E poi vedevo Ava che si muoveva aggraziata tra i suoi compagni, sorseggiando acqua da una zucca, calmando un bambino che piangeva, e mi rendevo conto che tutti i miei nobili pensieri erano solo scuse. Sì, aiutavo quel clan perché c’era lei, e non sopportavo l’idea che un giorno, quando lei non fosse stata più in grado di tenere i loro ritmi di marcia, i suoi compagni l’avrebbero svenata liberando il suo spirito dal corpo.

La mia conoscenza della tecnologia del Neolitico era a dir poco lacunosa, però ricordavo di aver visto delle illustrazioni di catapulte per lance, lunghe impugnature scanalate che fungevano da prolungamento efficace del braccio e consentivano di scagliare un’asta a distanza doppia. Feci degli esperimenti per parecchi giorni, e alla fine imparai a costruire una catapulta e a usarla.

La diffidenza di Dal scomparve quasi quando gli mostrai come fare a lanciare un’asta a distanze mai viste prima. Aveva guardato l’arco e le frecce con sospetto, soprattutto perché non ero ancora capace di impennare bene le frecce che di conseguenza risultavano imprecise. La catapulta però si adattava perfettamente alla sua esperienza e alle sue aspettative. Il primo giorno che la usò, Dal abbatté una gazzella che sfamò l’intero clan per due giorni. Subito, mi ritrovai tempestato di richieste. Feci altre tre catapulte, sotto gli sguardi attenti degli uomini e dei ragazzi. Poi cominciarono a fabbricarle loro, e in una settimana ottenevano già risultati migliori dei miei.

Ogni notte guardavo le stelle, cercando nei loro schemi eterni un segno che mi indicasse la posizione sulla Terra. Gran parte delle costellazioni mi apparivano familiari. Riconobbi Andromeda, Perseo, Boote e l’Orsa Minore. Chiaramente, mi trovavo nell’emisfero settentrionale. L’Orsa Maggiore aveva una forma strana, storta, le sue stelle erano disposte diversamente. Se avessi avuto ancora qualche dubbio, quella era la conferma che mi ero spostato di parecchi millenni.

Il vulcano che si ergeva all’orizzonte continuava a ricordarmi qualcosa, ma non riuscivo a inquadrarlo. Quando chiesi a Dal come si chiamasse, lui mi fissò in modo strano. O il clan non dava un nome alle montagne, o si trattava di un nome sacro da non pronunciare alla leggera.

Il terreno era in salita, adesso, e ci arrampicammo lungo pendii erbosi sempre più ripidi. Dopo circa una settimana di viaggio, il terreno si appiattì in un ampio plateau coperto da una foresta buia. Pini e abeti immensi, e a intervalli macchie di betulle e querce maestose. Sotto gli alberi la vegetazione era rada, ma si infittiva nei punti dove il soffitto verde lasciava filtrare i raggi del sole. Dal ci guidò lungo un sentiero che si addentrava serpeggiando tra le ombre degli alberi… terreno brullo, ammorbidito da un tappeto di aghi di pino. Un percorso facile.

La foresta era ricca di selvaggina. Ogni mattina gli uomini e i ragazzi più grandi si spingevano a caccia di cinghiali, cervi, e qualsiasi cosa riuscissero a trovare. Spesso anche alcune donne partecipavano. Le altre donne e i bambini restavano al campo, catturando selvaggina più piccola con le trappole. Io divenni un tiratore esperto con la fionda, e di solito riuscivo a uccidere un paio di conigli o di scoiattoli in un’ora. Il clan mangiava bene nella foresta. Chissà perché non rimanevano lì?