Lo chiesi ad Ava, un pomeriggio in cui era rimasta al campo invece di uscire con i cacciatori.
— Andiamo nella valle, nel nostro territorio estivo — mi disse. — Là incontreremo altri clan. Ci saranno matrimoni e feste.
Sedevo con la schiena appoggiata al tronco enorme di una quercia, mentre lei era in ginocchio, intenta a dividere le radici e le erbe medicinali che aveva raccolto quella mattina.
— Perché i clan non si incontrano qui nella foresta? — domandai. — C’è più selvaggina che in tutti gli altri posti che ho visto finora.
Ava mi sorrise paziente, il sorriso di un’insegnante alle prese con un allievo volenteroso. — La valle è un posto migliore. C’è molta selvaggina, là. E anche altri generi di cibo. Qui nella foresta… — Si guardò intorno, nella penombra tetra interrotta da raggi spettrali di luce. — Qui ci sono spiriti delle tenebre, pericolosi e malvagi.
Conoscevo uno spirito delle tenebre estremamente reale, io. Mi domandai se Ahriman fosse in agguato in quella cupa foresta.
— E nemici che possono tenderci imboscate. — La voce sonora di Dal interruppe la nostra discussione. — La foresta si presta facilmente alle trappole del nemico.
Si avvicinò a grandi passi, forte e sicuro di sé, sorridendo sotto la barba color rame. Su una spalla, portava un giovane cinghiale con le zampe posteriori legate.
Ava balzò in piedi, talmente felice di vederlo che io provai una fitta improvvisa di gelosia e irritazione. — Perché di ritorno così presto?
Lasciando cadere a terra la preda, Dal indicò e disse: — Abbiamo trovato un nuovo abbeveratoio, più a monte. Ci vanno tutti gli animali a bere. L’anno scorso non c’era; qualcosa ha sbarrato il torrente, formando un grosso stagno. Al tramonto prenderemo tanta selvaggina che mangeremo per il resto del viaggio!
Al tramonto tutto il clan era appostato nei pressi dell’abbeveratoio, un laghetto alimentato da un ruscello che scorreva nella foresta scendendo dal fianco ancora innevato della montagna. Solo i due anziani, i bambini e le quattro donne più vecchie erano rimasti al campo. Dal aveva portato tutti gli altri, disponendoci con cura attorno allo stagno e ai lati del sentiero che conduceva all’acqua.
Era tanto sicuro di sé da indicare anche a me dove nascondermi. Io accettai i suoi ordini sorridendo; Dal non mi temeva più, il che mi faceva piacere. Ormai facevo parte del clan.
Aspettammo, rannicchiati tra la vegetazione, sperando che il vento non cambiasse direzione e rivelasse la nostra presenza agli animali che sarebbero venuti a bere.
Le ombre della sera cominciavano a calare. Gli uccelli cinguettavano e svolazzavano tra gli alberi. Una processione di formiche mi sfilò davanti a qualche centimetro dagli occhi, mentre me ne stavo accovacciato, impaziente, sudato nonostante la frescura. Accanto, avevo tre lance. A destra e a sinistra, intravedevo altri membri del clan, nascosti e mimetizzati come me. Dovevamo attendere che Dal facesse la prima mossa.
Aspettammo. Le ombre si infittivano. I richiami degli uccelli cessarono. Ma gli animali non arrivavano. Cominciai a chiedermi se fosse successo qualcosa.
Poi sentii uno sbuffare alle mie spalle. Non osai voltarmi. Rimasi immobile, respirando appena. Avevo le mani bagnate di sudore. Ero eccitato come quei cacciatori del Neolitico… forse, più eccitato di loro.
Soli, a coppie gli animali scesero guardinghi il sentiero verso lo stagno. Cervi, cinghiali, uno strano genere di capre, altre specie mai viste. Avanzavano adagio, sapendo benissimo che la foresta era infestata di cani selvatici e lupi. Non sospettavano che ci fossero altri predatori nascosti proprio lì.
Con un grido agghiacciante, Dal scattò in piedi e scagliò una lancia contro il cervo più grosso, colpendolo dietro le zampe anteriori, facendolo stramazzare sul bordo del laghetto. Tutti balzammo in piedi, sfogando con urli assordanti l’eccitazione repressa, e iniziammo la strage.
Ava era la più scatenata del gruppo, impavida, feroce come un demone dell’inferno. Trafisse un cerbiatto con la sua prima asta, poi si precipitò sul sentiero per impedire alle bestie di fuggire. Un cinghiale la caricò a testa bassa, gli occhi accesi d’odio. Ava lo infilzò con l’altra lancia, ma lo slancio furioso dell’animale le strappò l’arma di mano. Mi affiancai a lei e inchiodai il cinghiale a terra trapassandogli le reni. Senza un attimo di esitazione, Ava gli saltò a cavalcioni e lo sgozzò.
Il sangue ci schizzò addosso, mentre Ava, alzava le braccia, e agitava il coltello di pietra insanguinato mettendosi a gridare lei stessa come una belva impazzita.
Rimasi ad osservare, improvvisamente paralizzato davanti a quella visione di ardore primitivo, di bramosia di morte e violenza appagata col sangue della preda. Attorno a noi il massacro continuava, riempiendo l’aria di urla e del tanfo del sangue. Ava mi gettò le braccia al collo, ridendo e singhiozzando nel medesimo tempo.
— Compagni di sangue! — strillò. — L’abbiamo ucciso insieme. Abbiamo una morte che ci accomuna!
Avrei preferito che fosse l’amore a unirci. Ma sembrava che per lei i sentimenti si equivalessero.
Trascinammo le bestie massacrate al campo, dove gli anziani e le donne ci tributarono un’accoglienza chiassosa. Eravamo macchiati di sangue, puzzavamo di sudore e di budella squarciate. Nessuno aveva riportato ferite gravi; uno degli adolescenti aveva un taglio profondo al polpaccio, ma non sembrava niente di serio.
Tremavo ancora quando arrivammo al campo. Avevo già cacciato in precedenza, da solo. Avevo cacciato con Dal e altri membri del clan. Ma la caccia di quella sera era stata qualcosa di diverso, un’esperienza selvaggia e brutale che aveva liberato gli istinti assassini che si celano nell’animo di ognuno. Non saremmo riusciti a mangiare tutta la selvaggina uccisa; molta sarebbe marcita. Eppure, in preda a una smania e a una voracità da squali, avevamo ucciso il maggior numero di bestie possibile, risparmiando solo quelle abbastanza svelte o fortunate da sfuggire alle nostre lance.
Dal mi fissò sospettoso sulla via del ritorno. Ma non perché temesse che fossi una spia nemica o uno spirito capace di rubargli l’anima. Era semplicemente un maschio affetto da gelosia. Aveva visto Ava che mi abbracciava, e la cosa non gli era piaciuta.
I due anziani insistettero perché il clan celebrasse un rito di sangue per ringraziare gli dei di quella caccia miracolosa. Volevano addirittura che io partecipassi, come rappresentante degli dei. Dal rifiutò deciso.
— Orion ci ha detto che è un uomo, non uno spirito — sostenne.
— Ma prima che venisse da noi, non avevamo mai fatto cacce così abbondanti — ribatté il più anziano degli anziani. — Forse parla così per modestia, o perché possiede la saggezza degli dei… Comunque, il suo arrivo ci è stato incredibilmente propizio.
Non presi parte alla discussione. Meglio che decidessero da soli, mentre io stavo zitto… per modestia o saggezza superiore.
Ma Ava intervenne. — Orion mi ha aiutato a uccidere il cinghiale. Siamo compagni di sangue. Dovrebbe partecipare al rito.
Al che, naturalmente, Dal si schierò ancor più accanitamente contro di me. Il clan era una specie di democrazia arcaica. Dal non era un sovrano assoluto. Ma come accade in tutte le democrazie, una minoranza caparbia di solito riesce a prevalere sui desideri della maggioranza. Dal voleva impedirmi ad ogni costo di prendere parte al rito tribale, sorretto da una base di gelosia e sospetto. Gli altri dalla loro avevano solo l’imparzialità e la buona volontà. Vinse Dal.
Così, mi sedetti al buio, lontano dal fuoco, mentre il clan danzava e sconquassava la notte con i suoi cori di grida allucinanti. Attorno a me, i tronchi si innalzavano neri e minacciosi; mi fecero pensare ad Ahriman, incarnazione delle tenebre, che mirava alla nostra estinzione.