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Per ore osservai le danze, ascoltai i loro canti selvaggi, ripetendomi che ero contento di non essere come loro, contento di essere una persona civile, di starmene appartato.

Finalmente quegli urli sinistri cessarono e il chiarore del fuoco divenne un lucore rossastro tra le colonne scure degli alberi. Mi coricai sul tappeto di aghi di pino e chiusi gli occhi per dormire.

Ero contento di non essere uno di loro. Il pensiero mi rimbalzò nella niente, fino a trasmettermi un senso di nausea fisica. Io non ero uno di loro.

Ero solo, completamente solo, a migliaia di anni dal mio amico più vicino… anzi, la mia memoria era così bloccata che non sapevo nemmeno se avessi un amico in qualche angolo del continuum spazio-temporale.

Fu allora che Ava venne da me. C’era buio, ma sentivo prepotentemente l’odore di sangue e umori animali del suo corpo nudo macchiato.

— Non hai potuto prendere parte al rito — mormorò, ansimando ancora per l’eccitazione. — Così ho portato il rito qui da te.

Una buona parte del mio essere provava disgusto per lei e la sua primitiva brama di sangue; una parte di me sapeva che Dal non mi avrebbe mai perdonato se avessi fatto l’amore con la sua donna; una parte di me si sentiva raggricciare all’idea di stringerla tra le braccia e tuffarmi nel tanfo e nella passione di Ava.

Ma con una subitaneità che travolse ogni mio pensiero, mi trasformai in una creatura selvaggia e insaziabile come Ava, e almeno per un po’ non mi sentii più solo.

26

La mattina dopo riprendemmo a marciare verso nord, barcollando sotto il nostro carico di selvaggina. Eravamo attorniati da sciami di mosche, e l’odore della carne che marciva era nauseante. Gli altri però non sembravano sentirlo; erano tutti felici del bottino che portavano.

Ava era in testa alla piccola colonna, accanto a Dal. Ammesso che sapesse cosa avessimo fatto la notte prima, Dal non lo dimostrava.

Ava, neppure. Quando mi ero svegliato, se n’era già andata, tornando al suo solito giaciglio, a fianco di Dal, probabilmente. Dal suo atteggiamento, sembrava che i nostri rapporti non fossero cambiati. Cominciai a pensare che quanto era successo nella passione indemoniata del rito di sangue del clan fosse stato un evento straordinario, che non rientrava nelle regole della vita quotidiana, che non bisognava ricordare o rimpiangere una volta sorto il sole.

Due giorni dopo, sbucammo dalla foresta e iniziammo ad attraversare un ampio altipiano soleggiato punteggiato di fiori. Qui e là cresceva del grano selvatico, e delle file di alberi contrassegnavano il corso dei ruscelli. I primitivi erano sempre più allegri e distesi. Conoscevano alla perfezione quel territorio, e facevano commenti su ogni affioramento roccioso, ogni ansa di torrente, ogni estensione di grano che superavamo.

Un pomeriggio, Ava rimase indietro e mi si affiancò. Già da un po’, io restavo in coda al gruppo, per qualche misteriosa ragione interiore, avevo la sensazione che qualcuno ci seguisse, ci osservasse. Ma ogni volta che mi voltavo, non vedevo nulla, nessuno. Ma quella sensazione non accennava ad andarsene, continuava a solleticarmi la nuca.

— Presto saremo nella nostra valle — mi disse Ava, sorridendo.

— La nostra valle?

Lei annuì, soddisfatta come un viaggiatore che stesse finalmente arrivando a casa.

— La valle è un bel posto. Verrà altra gente a dividerla con noi. C’è acqua, grano, selvaggina. Tutti sono felici nella nostra valle.

Quando infine arrivammo a destinazione, circa una settimana più tardi, constatai che era davvero un piccolo paradiso terrestre, incantevole e riparato.

Ci fermammo sulla riva di un torrente, quel pomeriggio, contemplando dall’alto la vallata. Il torrente scendeva lungo una serie di terrazze, arrivava in fondo e attraversava la valle scomparendo tra le rocce all’estremità opposta. Vidi che quel dirupo costituiva la base della grande montagna; dalla vetta dove la neve scintillava nel sole della tarda primavera si levava un pennacchio di fumo.

Era facile capire come mai il clan fosse così contento di essere lì. La valle era verde e soleggiata. Dal contorno a U si intuiva che era stata formata da un ghiacciaio, abbarbicato alle pendici del maestoso vulcano, e ormai sciolto da chissà quanto. Era un angolino comodo e tranquillo, e non presentava problemi di difesa. L’unica via d’accesso alla valle passava lungo le terrazze di roccia dove si gettava il torrente a cascata, la strada che stavamo percorrendo. Era un sentiero scivoloso, ma non eccessivamente ripido. Sugli altri lati le pareti della valle si innalzavano molto scoscese per parecchie centinaia di metri.

Il nostro clan fu il primo ad arrivare quell’anno. La gente di Dal si precipitò lungo i gradini di pietra viscida ridendo felice, abbatté alcuni alberi, prese della selvaggina, e prima che calasse l’oscurità costruì delle capanne primitive con le pareti di fango e i tetti di rami e pelli. Le capanne erano scavate nel terreno, abitazioni sotterranee più che altro, ma a loro sembravano dimore sontuose.

Una nota di tristezza guastò il clima di allegria generale quella notte. Il ragazzo rimasto ferito durante la battuta di caccia entrò in coma. Non mi era parso un taglio particolarmente grave, invece si era infettato nonostante le cure di Ava a base di impiastri e impacchi di foglie. Quando eravamo arrivati nella valle, il poveretto ormai si reggeva in piedi a fatica; aveva la gamba gonfia e infiammata. Quella notte aveva cominciato a delirare, divorato da una febbre altissima. Poi erano subentrati il silenzio e l’immobilità. Sua madre gli restò accanto tutta la notte. All’alba, il suo lamento lacerante ci annunciò la morte del ragazzo.

Il clan lo seppellì nel pomeriggio. Ava celebrò il rito funebre, e nella tomba vennero messi tutti i beni personali che il ragazzo aveva accumulato in quattordici estati: alcuni attrezzi di pietra, una manciata di sassolini levigati, le sue pellicce invernali. Ogni membro del clan lasciò cadere un fiore nella tomba, mentre la madre osservava in silenzio. Le sue guance rugose erano asciutte; aveva finito le lacrime. In seguito Ava mi disse che il padre del ragazzo era rimasto ucciso due anni prima, e che la donna, che si chiamava Mara, non aveva altri figli. Era ormai troppo vecchia per sperare di trovare un nuovo marito. Probabilmente non sarebbe sopravvissuta al prossimo inverno.

Pensai al modo in cui avrebbero potuto sbarazzarsi di lei, ma non ebbi il coraggio di chiederlo.

La mattina seguente, percorsi tutta la valle seguendo il torrente. Il terreno doveva essere stato sconvolto da un terremoto perché mi sembrava che il torrente scorresse in senso inverso: dall’estremità della valle da cui eravamo entrati scendeva lungo le terrazze di roccia e proseguiva in direzione della base del vulcano. Secondo me, a rigor di logica, l’acqua avrebbe dovuto scendere dalla cima innevata della montagna e scorrere nella direzione opposta.

Mentre tornavo lentamente alle capanne di fango costruite dal clan, vidi Ava in lontananza tra i cespugli fioriti ai piedi di un versante della valle. Deviai, incamminandomi verso di lei. Vidi che stava raccogliendo erbe e radici per la sua scorta di medicine. Anche se non erano servite a molto per il ragazzo, le misture di Ava erano l’unica arma a disposizione del clan per combattere le malattie e le ferite.

— Salve.

Lei alzò lo sguardo dalla vegetazione che stava esaminando. — Che c’è? — mi chiese.

Avanzando tra l’erba alta fino al ginocchio, risposi: — Nulla. Stavo solo camminando lungo il torrente e ti ho vista.

Il sorriso di Ava era più che altro di perplessità. Evidentemente l’idea di fare una passeggiata e fermarsi a chiacchierare con un amico non era molto diffusa tra quella gente.