Ava afferrò in fretta il concetto, e dopo alcune notti mi fece notare che una stella sembrava essersi spostata leggermente, infatti.
— È Marte — le dissi. — Non è una stella come le altre che vedi. È un mondo, abbastanza simile al nostro mondo, ma incredibilmente lontano.
— È rosso, come il sangue.
— Sì, è fatto di sabbia rossa. Anche il suo cielo è rosa per la presenza di polvere rossiccia… un colore più o meno uguale a quello dei tuoi capelli.
— La gente lassù deve essere feroce e guerresca, se tutto il suo mondo è color sangue — commentò Ava.
Ebbi un tuffo al cuore, pensando che stavo contribuendo alla nascita dell’astrologia. Ma mi consolai dicendomi che certe idee non nascevano un’unica volta, in un unico posto, in un periodo preciso.
Quella notte restammo svegli fino all’alba, osservando le stelle che ruotavano in cielo nel loro maestoso orologio cosmico. E quando Venere, la Stella del Mattino, sorse, sentii il sospiro di piacere di Ava. Avrei voluto stringerla, baciarla. Ma lei si staccò da me, intuendo probabilmente le mie intenzioni.
— Sono la donna di Dal — mormorò. — Vorrei che non fosse vero, ma è così.
Stavo per dirle che l’amavo, ma mi resi conto in modo traumatico che nella loro lingua non c’era alcuna parola che esprimesse quel concetto. Il sentimentalismo non era ancora stato inventato. Lei era la donna di Dal, e le donne non cambiavano compagno in quell’era preistorica.
Tornammo alle capanne, alle braci dei fuochi. Dal sedeva davanti al suo tugurio, l’aria abbattuta, rabbiosa, preoccupata e sonnolenta contemporaneamente. Si alzò quando ci vide, e Ava gli sorrise e lo prese a braccetto. S’infilarono nella bassa apertura della capanna senza rivolgermi la parola.
Rimasi impalato per qualche secondo, quindi mi girai e raggiunsi la mia capanna, che il clan mi aveva costruito su richiesta di Dal… a un centinaio di metri dalla capanna più vicina del clan.
Quando mi chinai entrando nell’unica stanza, avvertii immediatamente la presenza di qualcun altro. L’alba stava appena cominciando a tingere il cielo a est, e non c’erano finestre nella capanna… l’aria e la luce penetravano solo dall’apertura d’ingresso. Eppure capii di non essere solo nell’oscurità del mio rifugio. Sentivo una presenza, cupa e minacciosa… un respiro lento, profondo, forte.
— Ahriman — sussurrai.
Qualcosa si mosse nell’angolo più buio della capanna. Portai la mano al mio coltello di selce. Un gesto inutile, sciocco; ma era stata una reazione istintiva.
— Ti aspettavi di trovarmi qui, vero? — La voce aspra, tormentata di Ahriman mi trasmise un brivido lungo la schiena.
Scostandomi dall’apertura, perché la mia figura non si stagliasse contro il chiarore crescente dell’esterno, risposi: — Ci segui da parecchie settimane.
— Sì.
Distinguevo a stento la sua sagoma oscura e massiccia. — Intendi fare del male a questa gente?
Ahriman si mosse leggermente.
— Che male posso fare? Sono solo un uomo, un uomo solo contro tutta la tua razza…
— Non considerarti un uomo — ringhiai.
Sentii un rantolo che assomigliava vagamente a una risata. — Orion, sciocco! Tu, non considerarti un uomo!
— Sono un essere umano — dissi — non uno della tua razza.
— Non sei della mia razza, è vero — disse Ahriman, sputando le parole a fatica. — Sono l’unico superstite della mia razza. I tuoi simili hanno ucciso tutti i miei simili.
— E tu cerchi vendetta.
— Giustizia.
— Anche se questo comporta la distruzione del continuum spazio-temporale.
— È l’unico modo per ottenere la giustizia che cerco. Abbattere i pilastri che sorreggono il mondo. Provocare la fine di tutto. Distruggere colui che assume le sembianze del Dio Radioso.
— Ormazd.
— Sì, Ormazd. Il signore dei massacri. Il tuo signore, Orion. Il tuo creatore.
— Non puoi toccarlo. È troppo potente per te, così sfoghi il tuo astio su questi poveri selvaggi ignoranti. — Sentivo l’odio che mi ribolliva dentro.
Ahriman ribatté: — Voi vi definite umani. Pensate di possedere questo pianeta.
— Certo! Questo è il nostro mondo.
— Momentaneamente. Solo momentaneamente. Lui vi ha fatti per conquistare questo pianeta, ma ci penserò io a distruggervi… definitivamente, per sempre.
— No. Ti ho già fermato due volte. Ti fermerò anche qui.
Ahriman fece una pausa, quasi volesse radunare le sue forze prima di riprendere a parlare. — Due volte, hai detto? Ci siamo già incontrati due volte, prima?
— Sì.
— Dunque è vero — borbottò, meditabondo. — Stai tornando verso La Guerra.
Rimasi zitto.
— Il Radioso è molto astuto. Ti sta spostando indietro nel continuum. Non hai ancora visto La Guerra. Non sai cosa è successo allora.
— So che il mio compito è di darti la caccia e ucciderti una volta per tutte, eliminarti per l’eternità.
Percepii una energica scrollata di capo. — Per l’eternità. No. Non ti rendi conto di quel che dici. Nessuno, nemmeno il Radioso Ormazd, può afferrare e manipolare l’eternità.
— È il mio compito — dissi.
Di nuovo quel gorgoglio gutturale, quella specie di risatina raccapricciante. — Fai il tuo dovere allora, qui, subito. Uccidimi.
Esitai.
— Hai paura.
— No — risposi. Ed ero sincero. Non avevo affatto paura. Stavo solo pensando al modo in cui aggredirlo. Sapevo che era molto più forte di me. E avevo solo quel ridicolo coltello di pietra. Come potevo sperare di attaccarlo efficacemente?
— Sono stanco di aspettare — disse Ahriman.
Le ombre esplosero. La sua mole imponente d’un tratto mi si proiettò addosso, sbattendomi contro la parete di fango della capanna. Le dita di Ahriman mi serrarono la gola. Sfondammo il muro, e il tetto di rami ci cadde addosso mentre lottavamo nella polvere. Io menavo colpi all’impazzata col coltello, ma senza esito.
La sua faccia era a pochi centimetri dalla mia, un ghigno gli arricciava le labbra, i suoi denti luccicavano maligni, un ringhio brutale gli scaturiva dalla gola, gli occhi ardevano rabbiosi e trionfanti. Le forze mi stavano abbandonando. Avevo le braccia molli, i miei tentativi di difesa erano sempre più fiacchi.
L’oscurità cominciava ad appannarmi la vista, e mi resi conto che stavo per morire.
Sentii un tonfo sul terreno accanto a me, poi un colpo smorzato, come se un oggetto duro avesse centrato il corpo di Ahriman che mi schiacciava. La stretta delle sue dita si allentò; lo sentii grugnire, drizzarsi. La vista mi si schiarì leggermente, respirai a fondo, e lo vidi sopra di me, ringhiante, con una lancia che gli penzolava da un fianco.
Un’altra lancia fendette l’aria, ma Ahriman l’afferrò con la mano. Girandomi, vidi che era stato Dal a scagliarla. Gli altri uomini del clan lo stavano raggiungendo di corsa, armati; sembravano soprattutto sorpresi, non spaventati. Se il loro capo era pronto ad affrontare quell’invasore sconosciuto, loro avrebbero fatto altrettanto… tenendosi a distanza di sicurezza.
Ahriman girò l’asta e piegò il braccio per scagliarla contro Dal. Gli sferrai un calcio alle gambe, facendolo cadere. Gli uomini lanciarono un urlo agghiacciante e partirono alla carica.
Mi drizzai per gettarmi addosso ad Ahriman, ma lui mi mise in ginocchio con un tremendo manrovescio, si strappò l’asta dal fianco insanguinato e la lanciò verso gli uomini del clan. Era un tiro a casaccio, eppure la forza impressa all’asta era tale che un primitivo venne passato da parte a parte, stramazzando all’indietro sul terreno.