Però ogni sera tornava nella capanna di Dal per preparargli la cena. Mi invitò spesso a cenare con loro, ma Dal mi fece capire chiaramente che lo mettevo a disagio e che era già fin troppo geloso di tutto il tempo che Ava passava con me. Di solito mangiavo in solitudine, davanti alla mia capanna ricostruita, cuocendo la carne e la verdura che quelli del clan mi davano in cambio delle mie lezioni di fabbricazione di attrezzi e allevamento del bestiame. Se non fosse stato così tragico, sarebbe stato divertente considerarmi il maestro di quei primitivi. In realtà, io mi limitavo a suggerire delle idee a cui non avevano mai pensato. Una volta afferrato il concetto, si mettevano al lavoro ottenendo risultati migliori di quelli che avrei potuto ottenere io. Impararono a fabbricare frecce precise, a costruire recinti, a filare la lana. Io piantavo semplicemente i semi; loro li coltivavano e raccoglievano i frutti.
La vita nella valle era piacevole e comoda. Le giornate si allungavano, ma il caldo e l’umidità dell’estate non erano mai opprimenti. Il grano cresceva bene, riempiendo la valle di distese dorate mosse dalla brezza. Il colore di Ormazd, pensai, e mi resi conto che era bello. Le notti erano fresche, spesso ventose. Mostravo ad Ava le fasi lunari, l’orbita dei pianeti, le costellazioni. Le indicai il Triangolo Estivo alto nel cielo: Deneb, Altair e Vega. Imparava in fretta, e dalle domande che mi rivolgeva si capiva che era ansiosa di imparare altre cose.
Dal ci accompagnava in quelle notti. Dapprima perché non si fidava di lasciarmi solo con Ava, e non potevo dargli torto. Però, nonostante tutto, cominciò a interessarsi alle cognizioni celesti.
— Intendi dire che si può capire quando le stagioni cambieranno, prima che il cambio cominci? — Era scettico.
— Sì. Le stelle possono dirci quando piantare il seme e quando raccogliere il grano.
Dal corrugò la fronte nel chiarore lunare. — Piantare il seme? Cosa intendi dire?
E iniziarono lunghe notti di discorsi sulla crescita delle piante. Forse fui io il primo essere umano a spiegare la similarità tra gli uccelli e le api, la crescita delle piante e la sessualità umana. Comunque lo feci in maniera inversa rispetto a quella usata dai genitori del ventesimo secolo per spiegare certe cose ai loro figli: usai l’esempio della sessualità, che Dal e Ava capivano benissimo, per spiegare la nascita delle piante dai semi.
Come i bambini, anche loro stentarono ad accettare l’idea.
— Intendi dire che se mettiamo qualche piccolo seme nella terra nascerà un intero campo di grano?
Quando risposi affermativamente, Dal scosse il capo incredulo. Ava invece era assorta, i suoi occhi grigi contemplavano il futuro.
A parte quell’unica notte di follia del rito della caccia, Ava e io non ci eravamo più toccati. Non che non la desiderassi. Ma era la donna di Dal, e il suo interesse per me era del tipo indicato da un termine coniato millenni più tardi: platonico. Da me, lei voleva la conoscenza. Non l’amore e nemmeno la compagnia.
Un pomeriggio, mentre Dal guidava un gruppo di cacciatori all’estremità della valle, dov’era possibile intrappolare facilmente gli animali contro i dirupi, vidi Ava che fissava cupa i campi di grano. Era un po’ più piena, adesso. Come tutti. Ora che non dovevamo più marciare tutti i giorni, e che la selvaggina abbondava, avevamo tutti qualche chilo in più.
Il volto di Ava era contratto in una espressione così seria che decisi di chiederle cosa la turbasse.
— Ava, cosa c’è che ti preoccupa?
Lei ebbe un sussulto. — Cosa? Ah… sei tu.
— Qualcosa che non va?
— Che non va? No… non proprio. — Tornò a fissare il grano biondo accarezzato dalla brezza sotto i raggi dorati del sole.
— Non credi a quello che ho detto qualche notte fa — provai a indovinare. — Che è possibile piantare i semi del grano e farlo crescere…
Ava sorrise debolmente. — No, Orion. Io ci credo. Quello che dici ha senso, secondo me. Stavo solo pensando che… — Esitò, e dalla sua espressione di intensa concentrazione capii che si stava sforzando di riordinare le idee.
Attesi in silenzio. Era bellissima, morivo dalla voglia di abbracciarla. Ma lei non mi desiderava, lo sapevo.
— Immaginiamo — cominciò lentamente, ancora incerta — immaginiamo di poterlo fare davvero… di far crescere il grano come dici. Immaginiamo di restare in questa valle… sempre, d’estate e d’inverno. Potremmo far crescere il grano, tenere gli animali nel recinto. Non dovremmo andare a caccia ogni giorno. Potremmo restare qui e vivere molto più facilmente.
Annuii. La transizione dalla caccia a una vita agricola di insediamenti fissi aveva avuto inizio, almeno nella mente di una donna del Neolitico.
— Ma se il grano non crescesse? — chiese Ava.
— Cresce ogni anno, no? È sempre qui quando tornate in questa valle.
— Be’, sì… comincia a crescere quando noi siamo via. Ma se restassimo sempre qui, crescerebbe ugualmente il grano?
— Certo. Anzi, scoprireste anche dei sistemi per farlo crescere meglio per aiutarlo, curarlo.
— Ma lo spirito del grano non ha bisogno di star solo? Se staremo sempre qui, non morirà il grano?
— No — la rassicurai. — Lo spirito del grano diventerà più forte se lo aiuterete, curando il grano, uccidendo le erbe cattive che lo soffocano, spargendo il seme in altre parti della valle dove il grano non cresce ancora.
Capivo che si sforzava di credermi. Ma le vecchie superstizioni, certi schemi di pensiero profondamente radicati, la paura dei cambiamenti, di qualsiasi novità, di attirare la collera degli dei, tutte queste cose nell’animo di Ava si ribellavano di fronte alla vivida prospettiva che le avevo illustrato.
— Vado a fare una camminata — dissi, seguendo un’ispirazione improvvisa. — Vuoi venire?
Ava accettò, e io attraversai il campo di grano dorato, in direzione dei dirupi all’estremità della valle.
Chiacchierammo mentre raggiungevamo la base della parete rocciosa; Ava riesaminò da ogni angolazione l’idea dell’agricoltura e dell’allevamento, cercando qualche punto debole, qualche tranello nascosto che avrebbe potuto provocare la rovina del clan.
Avrei potuto dirle che quando il clan avesse smesso di peregrinare e rinunciato alla caccia si sarebbero formati dei villaggi agricoli, poi una società gerarchica di contadini e di re, le divisioni di classe tra ricchi e poveri. Avrei potuto dirle che gli occasionali scontri tribali che conosceva così bene sarebbero sfociati in guerre tra i villaggi, poi in guerre tra città, e infine in conflitti che avrebbero bagnato di sangue il mondo intero. Avrei potuto parlare delle metropoli sovrappopolate, dell’inquinamento, dell’olocausto nucleare, dei disastri ecologici.
Ma non dissi nulla. Nell’alba radiosa della civiltà umana, rimasi in silenzio e lasciai che Ava esaminasse quell’idea da sola.
Arrivammo ai piedi del dirupo. Sollevai lo sguardo verso la sommità, socchiudendo gli occhi nel riflesso abbacinante del cielo.
— Credo che mi arrampicherò sulla cima. Vuoi venire con me?
— Lassù? — Ava rise. — Nessuno può arrampicarsi su queste rocce, Orion. Mi stai prendendo in giro.
— No. Secondo me, possiamo farcela ad arrivare lassù.
— È troppo ripido. Una volta Dal ci ha provato e ha dovuto rinunciare. Nessuno può arrampicarsi su queste rocce.
Scrollai le spalle. — Proviamoci, insieme. Forse in due riusciremo a fare quello che uno da solo non può fare.
Mi fissò incuriosita. — Perché? Perché vuoi salire dove nessuno è mai salito?
— Proprio perché nessuno lo ha mai fatto. Voglio essere il primo. Voglio guardare il mondo da un punto dove nessuno ha mai messo piede.