Tutt’a un tratto, la smania di sangue sbollì dentro di me. Gocciolavo di sudore, ero letteralmente coperto di sangue, tremavo per lo sforzo fisico ed emotivo. Avevo ucciso degli altri esseri umani con la massima indifferenza, ma l’uccisione dell’orso mi aveva strappato dalla mia frenesia guerresca. Mi rannicchiai nel buio ella caverna, le mani sulle ginocchia, ansimando, piangendo quasi di vergogna.
Rimasi così per parecchi minuti. Gradualmente, riacquistai le mie forze, e con esse la decisione. Ahriman era lì. Lo sapevo. Lo sentivo. Forse l’orso era stato uno dei suoi sistemi difensivi, da scatenare contro di me, come si era servito dei topi in una caverna artificiale per uccidere la donna che amavo.
Strappai una lancia dal corpo ancora caldo dell’orso, scavalcai la carcassa, e avanzai brancolando. La vista era inutile in quella voragine nera, ma gli altri miei sensi erano tesi al massimo.
Ma se non riuscivo a vedere nulla, non riuscivo nemmeno a sentire nulla. Non il minimo rumore, a parte il mio respiro e lo scalpiccio quasi impercettibile dei miei piedi. Con la sinistra tastavo la parete scabra della caverna, con la destra stringevo la lancia. Avanzai adagio, come un cieco, in cerca del nemico che sapevo in agguato davanti a me…
La vampata improvvisa di luce accecante mi paralizzò, poi un colpo tremendo alla testa mi fece sprofondare di nuovo nell’oscurità.
30
Sentii il gelo della morte, e quando aprii gli occhi vidi che eravamo in una caverna di ghiaccio. Eravamo circondati da superfici traslucide e scintillanti. Il pavimento e le pareti erano lisci, biancazzurri. Il soffitto, alto, era irto di stalattiti. Il respiro mi si condensava. Rabbrividii, involontariamente.
Eravamo in profondità, sotto il massiccio roccioso dell’Ararat. Un incredibile nascondiglio naturale per Ahriman. Ahriman sedeva, incongruamente, dietro una massiccia, ampia lastra di legno, che sembrava tagliata di netto da un grosso tronco adulto. La superficie superiore era talmente lucida che rifletteva la faccia truce di Ahriman, il suo collo taurino e le spalle.
Io ero seduto con la schiena appoggiata a una roccia sporgente. La testa mi rintronava per il colpo ricevuto, ma intervenni allentando la tensione dei muscoli del collo e controllando la circolazione capillare per ridurre l’ematoma. Il dolore cominciò a diminuire.
Dietro la figura minacciosa di Ahriman c’era un contenitore che emanava una luminosità fioca. Sembrava di legno anche quello, ma di un legno nero, compatto, quasi simile a metallo. La parte superiore, incernierata, era aperta. Mi ricordava più che altro una bara.
Ahriman sedeva in silenzio dietro la strana scrivania, fissando la superficie lucida come se potesse leggervi qualcosa che io non ero in grado ai vedere. Mi mossi leggermente, saggiando i miei riflessi. Non ero legato; braccia e gambe erano libere, e sembravano rispondere senza problemi ai miei comandi.
Ahriman alzò lo sguardo e mi osservò. Indossava una tuta attillata di fibra metallica, chiusa sulla gola da una pietra dai colori cangianti. La tuta scintillava nella tenue luminosità della caverna. Guardai in alto, ma non c’erano sorgenti luminose, solo un lucore che sembrava provenire dal ghiaccio stesso.
— Bioluminescenza — disse Ahriman, con la solita voce aspra.
Annuii, più che altro per mettere alla prova la mia testa. Il dolore si stava calmando rapidamente.
— La tua gente ha spento le fiamme in poco tempo — disse Ahriman. — Il grano è saturo di umidità. Avrei dovuto aspettare una settimana, sarebbe stato più secco allora.
— Dove hai preso quei guerrieri? — chiesi.
Un macabro sorriso apparve brevemente sul suo volto dalle labbra sottilissime. — È stato facile. Ci sono molte tribù di tuoi simili che fremono d’impazienza tanto desiderano poter uccidere e depredare. La considerano gloria. E ritornano nei loro squallidi tuguri con una manciata di teste mozze e vantano la propria forza di fronte alle mogli e ai figli.
— Sei tu che li spingi a farlo.
— Non è necessario insistere molto. Uccidere è parte del loro sistema di vita, una qualità innata.
— Sai, il tuo piano fallirà qui — dissi. — Ci incontreremo di nuovo.
— Sì, me l’hai detto. Mi hai già incontrato due volte, prima.
— Il che significa che qui il tuo piano fallirà. Non riuscirai a impedire a questa gente di sviluppare l’agricoltura…
M’interruppe alzando una mano. — Che certezza incrollabile, la tua — mormorò rauco. — Sei davvero sicuro di trionfare, di avere ragione. Credi davvero che il Radioso rappresenti la verità e la vittoria.
— Ormazd è…
— Ormazd non è nemmeno il suo vero nome, come il mio non è Ahriman. Sono solo invenzioni, menzogne, artifici, semplificazioni necessarie perché la tua mente non è in grado di afferrare la verità complessiva in tutte le sue innumerevoli sfaccettature.
La rabbia cominciò a riscaldarmi interiormente. — So quel tanto di verità sufficiente per capire le tue intenzioni.
— Distruggere la tua razza, ecco cosa intendo fare. Anche se dovrò impiegare un’eternità per riuscirci. Anche a costo di lacerare il continuum e distruggere l’intero universo spazio-temporale. Non ho nulla da perdere. Lo capisci, Orion? Io non ho nulla da pendere.
I suoi occhi rossi mi fissavano. Percepivo la forza della sua collera, il suo odio, e qualcos’altro… qualcosa che non riuscivo a identificare, qualcosa di simile a un dispiacere eterno.
Ma ribattei velenoso: — Non vincerai mai! Per quanto ti affanni, sarai tu a essere distrutto!
— Davvero?
— Fallirai anche qui, come hai fallito altre volte. Non puoi fermare la razza umana.
Appoggiò le braccia alla strana scrivania e si piegò in avanti, sovrastandomi come una nube temporalesca.
— Povero sciocco, non capisci ancora la natura del tempo, vero?
Prima che potessi replicare, proseguì: — Anche se ci siamo incontrati prima, in altri secoli, in altri luoghi, non significa che tu mi sconfiggerai qui. Il tempo non è come un binario che viene steso un troncone alla volta, fissato saldamente, permanentemente. Il tempo è come un fiume, o meglio ancora un oceano. Si muove, si sposta, cambia; erode lembi di terra in alcuni punti, e in altri forma nuove isole. Non è immutabile. Se vincerò qui, le ere in cui tu ed io ci siamo già incontrati si dissolveranno nel caos primordiale, come se non fossero mai esistite.
Lo fissai per qualche attimo in silenzio, poi dissi: — Non ci credo. Stai mentendo.
Ahriman scosse il capo. — Posso vincere, qui, Orion. Vincerò. E tutto lo spazio-tempo sarà sconvolto. Il continuum si sgretolerà, e le epoche e i luoghi dove ci siamo incontrati scompariranno.
— Non può essere vero!
— Però è vero. E tu lo sai. Vi distruggerò tutti, Voi che vi chiamate Homo sapiens sapiens. Voi tutti, creature di Ormazd. Voi e lui sparirete nel nulla, insieme, e la mia gente finalmente trionferà.
— Mai — dissi, ma così piano che stentai a sentire la mia voce.
Ahriman mi ignorò, esultante. — La tua piccola banda di selvaggi non compirà la transizione dalla caccia all’agricoltura. Né nessun’altra tribù. I tuoi simili rimarranno una debole, misera accozzaglia di tribù di cacciatori isolate… con l’istinto della guerra innato in loro.
Calcò il tono sulle ultime parole, le gustò, me le sbatté in faccia quasi fossero una giustificazione per tutto quello che aveva fatto, tutte le vite che aveva stroncato, tutte le malvagità commesse.