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Voltandosi, Anya vide la mole gigantesca di Saturno sospesa in alto, risplendente nei suoi colori vistosi e circondato dai suoi anelli di incredibile bellezza. Il cielo era limpido come il vuoto incontaminato dello spazio, e si notavano delle lune più piccole di Saturno che si stagliavano nette sullo sfondo stellato.

Anya avvertì la presenza del Radioso prima che la forma umana le si materializzasse accanto. Tenne a freno la collera, mentre lui completava la trasformazione e appariva sull’orlo del dirupo di ghiaccio in carne e ossa, vestito di una lucente tunica dorata che ad ogni movimento sprigionava tutti i colori dello spettro.

— Mi hai tenuta separata da lui — disse Anya furiosa, incapace di conservare ulteriormente la calma.

Il Radioso non la guardò. Osservò invece il lavoro dei costruttori là sotto.

— Le mie creature hanno imparato a costruire delle creature a loro volta — mormorò, assorto. — Ma come sono limitati i loro robot. Come sono goffi.

Anya sapeva che non poteva toccarlo, ma gli si parò di fronte, in atteggiamento di sfida. — Mi hai costretta a restare separata da lui. Ho vissuto una vita intera con quei selvaggi…

— Ti è piaciuto?

Anya emise un sospiro esasperato nella notte gelida.

Il Radioso sorrise. — Hai detto che amavi quelle creature. Eri disposta a vivere cento vite tra loro.

— Con lui! Con Orion!

— No. Ti stavi legando troppo a Orion. E lui a te. Ti ho detto che lo stavi indebolendo. Non posso permetterlo.

— Sei stato crudele — disse Anya, abbassando il tono. — Essergli così vicina, e non poterlo amare veramente. È stata una crudeltà trattarlo così.

— Ha una missione da compiere. L’ho creato proprio per questo. Non posso permettere che si lasci condizionare dagli ormoni che scorrono nel corpo che gli ho dato.

Anya fece per ribattere, esitò, e tacque. Il Radioso tornò a dedicare la propria attenzione ai lavori in corso nella pianura sottostante.

— Lo chiamano Titano, questo mondo. Per loro è un deserto gelido, buio e pericoloso. Se non indossassero quei caschi e quelle ridicole tute morirebbero all’istante.

— Ma sei stato tu a costringerli a venire qui, a costruire queste torri.

— Sì, e quando loro avranno terminato, farò in modo che alterino l’atmosfera perché risulti opaca ai loro strumenti d’esplorazione spaziale. Non devono scoprire troppo presto queste torri.

Anya lo fissò perplessa.

— Le creature laggiù provengono da un periodo molto più vicino alla Fine — spiegò il Radioso. — Sono gli antenati degli umani che scopriranno queste torri e si interrogheranno sul loro significato.

— A che servono le torri? Perché le stanno costruendo?

— Oh, per compiacermi, naturalmente.

Anya gli lanciò un’occhiata ostile e rabbiosa. — Il tuo ego si gonfia sempre di più. Credi davvero di essere un dio, vero, o grande Ormazd?

Il sorriso del Radioso tentennò solo leggermente. — Le apparecchiature in quelle torri provocheranno alterazioni progressive nel clima della Terra. Il pianeta attraverserà quella che le mie creature chiameranno un’Era Glaciale. Rientra tutto nel piano. Il Tenebroso può influenzare fiumi e vulcani? Be’, io influenzerò l’emissione del Sole e il clima della Terra per centinaia di migliaia di anni!

— E terrai all’oscuro di questo le tue creature?

— Sì. Non sono pronte, non possono capire.

— Perché tu non le hai preparate.

— Guarda — indicò il Radioso. — La marea sta arrivando.

Anya capì che stava cambiando argomento volutamente, per negarle altri spunti di discussione. Ma, nonostante tutto, si ritirò a osservare affascinata il mare di ammoniaca che si impennava come qualcosa di vivo e si proiettava sull’ampia pianura gelata. Mosso dall’enorme campo gravitazionale di Saturno, il mare di ammoniaca scivolava su metà della superficie di Titano ad ogni rotazione del satellite attorno al pianeta degli anelli. Ora stava riversandosi spumeggiando verso il cantiere dove umani e robot lavoravano a ritmo febbrile per innalzare le torri.

Sotto lo sguardo affascinato di Anya e del Radioso, il mare di ammoniaca dilagò attraverso la pianura leggermente inclinata e si fermò esaurendo la spinta, appena prima del muro di cinta che proteggeva il cantiere. Il mare sembrò fremere internamente, mentre i suoi tentacoli più avanzati lambivano la base della recinzione circolare di pietra. Dietro il muro, umani e robot lavoravano senza sosta.

— Vado da lui — disse Anya, rompendo infine il silenzio. — Non puoi tenermi separata da lui.

— Non posso permettermi di indebolirlo. La sua missione è uccidere Ahriman.

— Lo aiuterò — promise Anya.

— Come? Attirandolo in qualche paradiso tropicale dove potrete darvi alla pazza gioia come primitivi mentre il Tenebroso ci distrugge?

Anya serrò i pugni, fissandolo aggressiva. — Lo aiuterò a trovare il Tenebroso e a ucciderlo. Non lo hai fatto abbastanza forte perché possa riuscirci da solo. Però noi due, insieme, raggiungeremo il tuo obiettivo.

Il Radioso la fissò, meditando.

— Andrò da lui, che tu lo voglia o meno — minacciò Anya.

— E io farò in modo che rimaniate separati comunque.

Anya assunse un atteggiamento quasi sottomesso. — Lascia che lo aiuti. Lasciami stare con lui.

— Non mi piace l’attaccamento che ti stai concedendo nei suoi confronti.

— Tornerò da te. Dopo che avremo ucciso il Tenebroso. Tornerò da te, se è questo che vuoi.

— Lo esigo.

— Dunque dovrò farlo, dovrò tornare, vero? Non ho scelta.

— No, non hai scelta.

La voce ridotta a un mormorio impercettibile, Anya supplicò: — Lasciami stare con lui un’altra volta. Ancora per una vita.

— Ti permetterò di andare solo perché puoi aiutarlo a sconfiggere il Tenebroso.

— Sì. Ci riusciremo. Insieme.

— Poi tornerai da me.

Anya annuì.

Il Radioso incrociò le braccia sul petto. La sua veste diventò un turbinio di riflessi e scintille nell’oscurità. Poi lui e Anya scomparvero in un alone luminoso, come lucciole in una notte estiva. Sotto, sulla pianura, umani e robot continuavano a lavorare con cieca ostinazione, spinti da impulsi che non potevano nemmeno sperare di intuire in modo vago.

PARTE QUARTA

La Guerra

33

Dal calore infuocato dell’inferno piombai così in un freddo così intenso che bruciava. Aprii gli occhi e mi trovai rannicchiato sotto le sferzate di un vento rabbioso, con la neve che mi batteva in faccia, in un paesaggio coperto di ghiaccio e massicci banchi di neve.

Il vento ululava. Sentii che la faccia mi si stava congelando, mentre riducevo gli occhi a due fessure orizzontali per ripararmi dai proiettili bianchi che mi punzecchiavano.

Barcollando, scivolando, tenendomi piegato in avanti, avanzai verso l’unico riparo in vista… un banco di neve che si profilava in lontananza ergendosi in mezzo a quella allucinante bufera bianca.

Mi accovacciai, appoggiando la schiena. Non c’era verso di sfuggire al freddo anche lì dietro, però almeno ero protetto dalle frustate continue del vento. Attraverso le ciglia già incrostate di ghiaccio, vidi che indossavo una specie di armatura bianca, dalla gola ai piedi, anche se il materiale sembrava di plastica, non metallo. Mi resi conto che, a parte la testa gelata, ero protetto e sentivo un tepore confortevole. La tuta era riscaldata. Alle mani portavo guanti così sottili e flessibili che avrebbero potuto essere tranquillamente un altro strato di pelle, ma nonostante lo spessore minimo mi tenevano calde le mani. Senza dubbio quella tenuta comprendeva pure un casco, che però doveva essersi perso chissà dove in quella bufera polare che ammantava il mondo in un anonimo bianco uniforme.