Rimasi seduto, sconcertato, gelando lentamente, per un periodo di tempo che mi sembrò protrarsi per ore. Modificai il flusso sanguigno dei miei capillari per riscaldare il più possibile la testa, ma stavo semplicemente rimandando l’inevitabile. In quella temperatura sotto zero, stavo attingendo alle scorte interne di energia del mio corpo per ritardare il congelamento e la morte. Dovevo trovare un rifugio.
Ma dove? La neve copriva tutto. Non riuscivo neppure a individuare la linea dell’orizzonte; tutto era confuso, sfocato.
E in che era mi trovavo? Stando a quanto mi era successo finora, stavo muovendomi indietro nel tempo, verso La Guerra. In tal caso, avrei dovuto trovarmi in un’era precedente al Neolitico. Con quella tempesta polare che infuriava attorno a me, ebbi il sospetto di essere stato spedito nell’Era Glaciale. Ma gli indumenti che portavo erano in contrasto con una simile ipotesi. Indossavo prodotti di una tecnologia molto avanzata… meno il casco, naturalmente. La parte centrale della mia corazza polare era piena di sacche di plastica che contenevano complessi congegni elettronici di cui ignoravo la funzione. Prima, mi ero sempre trovato vestito in modo adatto all’epoca in cui ero stato inviato… però quelle non erano pellicce da cacciatore dell’Era Glaciale.
Dov’ero? E in che periodo?
Questi comunque erano interrogativi secondari rispetto al problema della mia sopravvivenza. Uno alla volta, provai a usare i vari strumenti racchiusi nelle sacche. No, perlopiù non ci capivo niente. Uno assomigliava vagamente a un telefono o a un apparecchio di comunicazione; stava nel palmo della mano, con una piccola griglia alla base e un minuscolo ovale di plastica sulla sommità che ricordava moltissimo uno schermo visivo miniaturizzato. Premetti i tre tasti che attraversavano la parte centrale, uno alla volta. Avevano tre colori di codice diversi: rosso, giallo, blu. Non accadde nulla.
Nella fretta di esaminare gli strumenti deposi il comunicatore sulla neve accanto a me, assieme agli altri congegni estratti dalle tasche, e continuai a estrarne altri per capire cosa fossero e come funzionassero… ma senza risultato.
Tranne che per l’ultimo congegno. Questo era fin troppo evidente. Aveva la forma di una pistola ed era infilato in un fodero sul fianco destro. La canna era una barra di cristallo circondata da alette di raffreddamento metalliche. Il calcio era leggermente rigonfio ed era caldo al tatto; senza dubbio conteneva una specie di accumulatore. Piegai il dito attorno al grilletto, puntai l’arma verso l’alto e premetti lentamente. Per un attimo l’arma emise un lieve ronzio, poi sparò un raggio rosso sangue così intenso che dovetti distogliere lo sguardo. Per diversi secondi l’immagine residua mi rimase impressa sulla retina, e fu qualcosa di gradito, un lampo di colore che spezzava la monotonia mortale del bianco che ricopriva il mondo circostante.
Sparai di nuovo, questa volta evitando di guardare direttamente il raggio che fendeva l’aria satura di fiocchi. Il raggio scomparve penetrando nelle nubi grigie, ed ebbi l’impressione che avrebbe potuto perforare facilmente l’armatura che portavo, o anche il fianco di una montagna, volendo.
Mentre rinfoderavo l’arma, sentii un debole pigolio che si mutò in fretta in un fischio continuo. Estrassi di nuovo l’arma e la controllai; non trasmetteva nessuna vibrazione, nessun suono. Per un attimo pensai che potessero essere le mie orecchie, forse un effetto fisico conseguente allo sparo. Poi però guardai gli strumenti sparsi sulla neve. La neve che cadeva incessante li stava già imbiancando… tutti, tranne il comunicatore, notai.
Lo raccolsi, accostandolo all’orecchio. Non solo era leggermente caldo, ma il tenue lamento elettronico proveniva proprio da lì. Il tasto rosso era acceso! Qualcuno stava cercando di mettersi in contatto con me!
Premetti tutti i tasti, armeggiando come un ossesso. Inutile. Il fischio continuava, e basta. Mi alzai, pensando che la trasmissione potesse essere bloccata dal banco di neve contro cui mi ero rannicchiato. Nessuna differenza… solo che quando mi voltai l’intensità del fischio cambiò.
Socchiudendo le palpebre nella bufera, lentamente feci un giro completo. Il fischio aumentava e calava, più forte nella direzione in cui ero voltato all’inizio, bassissimo quando ero girato nella direzione opposta.
Un raggio direzionale, mi dissi. O forse un localizzatore, aggiunsi con un barlume interiore di speranza. Mi inginocchiai a raccogliere gli altri apparecchi, li riposi nelle tasche, quindi mi avviai nella direzione indicata dal segnale elettronico, piegato quasi completamente in avanti per offrire minor resistenza alle raffiche gelide.
Arrancai tra cumuli di neve che mi arrivavano alle spalle. Per fortuna, grazie alla strana tuta, ero caldo e asciutto. I capelli invece erano una massa friabile di ghiaccio, e riuscivo a vedere a stento attraverso le incrostazioni bianche che mi bloccavano le palpebre. Le guance, le orecchie, il naso avevano perso qualsiasi sensibilità. Però respiravo ancora, e continuai a muovermi, ora dopo ora, sempre più debole e affamato.
La bufera non accennava a diminuire. Anzi… Ma tra i vortici di fiocchi cominciai a distinguere la forma grigia di una enorme massa rocciosa. Il raggio direzionale stava guidandomi là, e mentre barcollavo semiaccecato, vidi che si trattava di una imponente rupe di granito che il vento ripuliva da qualsiasi traccia di neve, una rupe che affiorava ostinata dalla distesa bianca, proiettandosi aspra e frastagliata nel grigiore spettrale del cielo.
Mi trascinai in avanti, fermandomi ogni tanto a controllare il comunicatore, per essere sicuro di stare seguendo ancora la sua rotta elettronica. Le forze mi stavano abbandonando rapidamente. Il freddo mi penetrava nelle ossa, svuotandomi i muscoli, attenuando la mia volontà di proseguire a tutti i costi. Ogni passo era sempre più faticoso. I piedi, caldi negli scarponi, mi sembravano di piombo, pesanti una tonnellata. Desideravo solo coricarmi e riposare nella neve morbida, comoda.
Ricordavo di aver visto fotografie di un’era remota in cui i cani da slitta esquimesi si raggomitolavano beati in piccole buche scavate nella neve da loro stessi, le code irsute piegate sul muso, gli occhi scuri che affioravano da un mondo fatto di bianco e di gelo. Mi fermai a tirare il fiato e mi girai a guardare il sentiero che avevo aperto nella neve. Le mie impronte erano già state cancellate. La mole arcigna della rupe sembrava fissarmi in silenzio, mentre io ero immobile, smarrito in un mondo bianco, completamente solo nell’universo, per quanto ne sapevo. Era giunto il momento di riposare, di coricarmi e dormire.
Anche le dita cominciavano a essere intirizzite, nonostante i guanti e il sistema di riscaldamento sovraccarico della tuta. Lasciai che il piccolo comunicatore mi scivolasse di mano. Cadde nella neve, e il suo tasto rosso mi lanciava occhiate d’accusa.
— Guardami male finché ti pare — dissi all’apparecchio, la voce rotta dalla sofferenza. Ogni respiro era una tortura; l’aria era così fredda che mi bruciava i polmoni.
— Devo riposare — dissi alla luce rossa.
Il tasto luminoso mi fissò impassibile. L’acuto lamento elettronico continuava a parlarmi tra gli ululati della bufera.
— D’accordo — gracchiai. — Farò altri dieci passi. Poi se non troverò un riparo, mi scaverò una buca e dormirò.
Mi costrinsi a fare altri dieci passi. Poi altri dieci. Poi ancora cinque. La rupe di granito sembrava sempre lontanissima. La violenza della bufera aumentava.
— È inutile — dissi alla scatoletta inanimata che tenevo in mano. — È inu…
Un sottile raggio di luce rossa accecante guizzo oltre la mia testa. Mi tuffai istintivamente nella neve estraendo la mia arma.
Un altro raggio guizzò nell’aria facendola crepitare.
Amici o nemici? mi chiesi, e per poco non scoppiai a ridere rendendomi conto di quanto fosse assurda una domanda del genere. Il nemico era quella bufera, il freddo, la morsa pungente del ghiaccio che mi circondava. Chi aveva sparato, chiunque fosse, doveva avere calore, cibo…