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Alzai la pistola e sparai dritto in aria. Un bagliore di tale intensità doveva essere visibile anche a chilometri di distanza, anche in mezzo a quella bufera.

Sbirciando verso la rupe, vidi un raggio di risposta che si perdeva tra le nubi. Mi rimisi in marcia, sorretto dall’adrenalina, arrancando scompostamente nella neve mentre spremevo le ultime riserve di energia del mio corpo.

In alto, di fronte a me, scorsi, una spaccatura scura nella roccia, l’imboccatura di una caverna. C’erano parecchie persone lassù, indossavano armature bianche identiche alla mia. Mi videro e cominciarono a sbracciarsi, incoraggiandomi. Ma non lasciarono la sicurezza del loro rifugio.

Cercai di affrettare il passo, agitando scioccamente le braccia, lanciando urla strozzate.

— Forza, puoi farcela! — gridò uno di loro.

— Hai ancora pochi metri, dai! — mi incitò un altro.

Avanzai barcollando verso di loro, chiedendomi in modo vago come mai non uscissero dalla caverna per aiutarmi a percorrere quegli ultimi metri. Ma la domanda fu spazzata via dalla gioia che provavo nel trovare dei miei simili in quel deserto sterminato di neve e di ghiaccio.

Il vento aveva scolpito i banchi di neve attorno alla base della rupe, formando candide rampe levigate. Una serie di scivoloni sul fondo liscio di ghiaccio, e finalmente mi ritrovai tra le braccia di quegli sconosciuti.

Mi afferrarono, mi sostennero, sorridendo, ridendo felici. Dietro di loro, nella caverna, vidi casse di equipaggiamenti e un grosso radiatore elettrico acceso.

— Ehi! — esclamò uno di loro. — Non è della nostra unità!

Le risate si spensero, i sorrisi scomparvero.

— Chi diavolo sei?

— Di che unità sei?

— Non sapevo che ci fossero altre unità operative in questo settore.

— Forza, amico… chi sei, e cosa ci fai qui?

Non avevo alcuna risposta da dargli. Il mio corpo si afflosciò, completamente svuotato. Mi si chiusero gli occhi, e persi conoscenza.

34

Quando rinvenni, vidi il soffitto della caverna, lastre scabre di granito, molto in alto. Piegai le dita dei piedi e delle mani, quindi girai leggermente la testa. Mi accorsi di essere stato spogliato; la mia armatura era sparita, portavo solo un paio di mutande.

Però provavo una deliziosa sensazione di tepore. L’assaporai per qualche secondo, poi mi drizzai sui gomiti per guardarmi attorno meglio.

Mi avevano steso su una branda che sembrava sospesa a mezz’aria. Sembrava di essere su un’amaca; ondeggiava al minimo movimento. Ma non c’erano supporti che la sostenessero. Gli altri erano raggruppati più all’interno della caverna, attorno a una specie di scrivania. Vedevo solo le loro schiene. Quasi tutti si erano tolti la corazza, e contai sette uomini e cinque donne in tuta grigia. C’era qualcuno seduto alla scrivania, ma il capannello era così fitto che non riuscivo a vedere se fosse un uomo o una donna.

— Come ti senti?

Una voce femminile mi fece girare, così in fretta che l’oscillazione dell’amaca per poco non mi fece ruzzolare sul pavimento della caverna.

— Bene… credo.

Era una donna bionda, bella, con un naso sbarazzino. Mi sorrise. — Quando sei arrivato barcollando mi aspettavo un caso di congelamento piuttosto serio, invece il computer ha controllato e sei a posto.

— Mi sento bene, infatti — confermai, rendendomi conto che era vero. Ero al caldo e al sicuro. Non avevo nemmeno fame.

Quasi mi avesse letto nel pensiero, la donna disse: — Ti ho iniettato un paio di fiale di sostanze nutritive mentre dormivi. Ma che fine ha fatto il tuo casco? Per fortuna che avevi il comunicatore d’emergenza. E poi, usare la pistola come segnalatore di pericolo! Come ti è venuta un’idea del genere? Di che unità sei, a proposito?

Interruppi la sua raffica di domande alzando una mano. — Credo di potermi alzare, se mi tieni fermo questo affare per un attimo.

Lei rise e prese un’estremità della branda fluttuante. — Per il quartier generale è una cosa fantastica; richiede solo un disco gravitazionale e un pezzo di stoffa, e si trasporta bene perché non pesa niente. Però quegli scaldascrivanie non hanno mai provato a dormire su una di queste mostruosità!

Mi alzai in piedi, contento di staccarmi dalla branda. Vidi un dischetto metallico sul pavimento, proprio sotto di essa. Chissà come, annullava la forza di gravità e permetteva alla branda di galleggiare a mezz’aria.

— Mi chiamo Rena — si presentò la donna tendendo la mano. — Tecnico e specialista di guerra batteriologica. Naturalmente, mi hanno fatto medico della squadra.

Le strinsi la mano. Mi arrivava a stento alla spalla ed era snella come un folletto. Mi guardò ansiosa con occhi azzurri come una montagna lontana coperta di neve.

— Orion — mi presentai. — Mi chiamo Orion.

— Unità? Specialità?

Scossi la testa. — Nessuna, che io sappia.

Il suo sorriso si mutò in un’espressione preoccupata. — Forse dovrei farti dare un’altra occhiata dal computer diagnostico. Ha un programma neurologico…

— Rena, mettigli addosso qualcosa, santo cielo!

Un uomo si avvicinò a noi. La sua tuta aveva degli stemmi d’argento sul colletto, e una targhetta col nome sulla parte pettorale:

Kedar. Sulla spalla sinistra c’era il simbolo di un lampo. Aveva una faccia truce, la corporatura forte e asciutta di un atleta, ma notai che zoppicava leggermente.

— Signorsì — disse Rena, portando la mano sulla fronte in un saluto militare. Dall’enfasi con cui aveva pronunciato la parola, però, mi sembrava che quel saluto fosse stato leggermente beffardo.

Mi indicò l’interno della caverna, dove delle file di contenitori di plastica erano allineate in bell’ordine.

— Qui ci sono i vestiti. — Aprì il lato di un contenitore, e vidi una pila di tute grigie. — Caschi e strumenti vari, nella fila là dietro. Serviti pure. Taglia unica.

Presi una tuta. Sembrava troppo piccola per me quando la osservai tendendo le braccia. Comunque, provai a indossarla. Sorprendentemente, si modellò al mio corpo, allargandosi e allungandosi se necessario per aderire comodamente senza essere troppo stretta.

Rena staccò la targhetta vuota dalla mia uniforme e sfilò da una tasca una penna termica.

— Orion — disse, tracciando il mio nome sul tessuto. Mentre mi porgeva la targhetta, mormorò: — Attento a Kedar. Crede di essere superiore a noi altri, solo perché e un tecnico dell’energia.

La ringraziai annuendo, e riattaccai la targhetta sul taschino della uniforme. Poi andammo a prendere una nuova armatura di plastica bianca, che tutti indossavano fuori dalla caverna, mi disse Rena. E un casco.

Mi sentivo un po’ come lo scudiero di un cavaliere medioevale, con le braccia ingombre di roba, mentre seguivo Rena verso la parte anteriore della caverna.

Kedar ci venne incontro. — Bene, almeno sei equipaggiato come si deve — commentò, squadrandomi da capo a piedi. — Vieni, Adena vuole farti qualche domanda.

Per un attimo, rimasi lì impalato, le braccia cariche, non sapendo cosa fare. Rena risolse il mio problema prendendo la roba che portavo. Si ritrovò nascosta dietro una montagna di oggetti quando le ebbi passato tutto quanto. Ma mi rivolse una strizzatina d’occhio amichevole mentre si allontanava traballando verso l’area dov’erano sistemate le brande.

Kedar mi guidò alla scrivania dove gli altri si erano radunati poco prima. C’era una donna là accanto, mi volgeva le spalle, china lievemente in avanti, intenta a studiare una carta geografica su un video.