— È qui, Adena — disse Kedar.
La donna si girò, e io restai senza fiato. Era lei. Giovane e bellissima come la prima volta che l’avevo vista, ere addietro. Aveva i capelli corti, più corti dei miei, ma erano folti, di un nero lucente, e le si arricciavano sulle orecchie e la fronte. I suoi occhi erano gli stessi… grigi, profondi, caldi, intelligenti.
Diede uno sguardo al nome sulla targhetta.
— Orion? — Anche la sua voce possedeva lo stesso tono melodioso.
Annuii. — E tu sei Adena. — L’emblema sulla sua spalla raffigurava un pugno chiuso.
— Cosa fai in questo settore? A che unità appartieni?
— Non lo so — risposi. — Mi sono ritrovato là fuori, perso nella bufera. I miei ricordi si fermano a qualche ora fa. — “A meno che non vogliamo tener conto di altre ere, di altre vite,” aggiunsi nel mio intimo.
Adena aggrottò la fronte.
Kedar disse: — È evidente che non è della squadra di trasporto.
— Già — annuì Adena. — Quale è la tua specializzazione?
Non sapevo cosa rispondere.
— Guerra batteriologica? Chimica? Armi a energia? Energia? Comunicazioni? — La sua voce salì leggermente di tono mentre io la fissavo muto, frastornato.
— Una specializzazione devi pure averla, soldato — scattò Kedar.
— Sono in missione speciale — mi sentii rispondere. — Sono un assassino.
— Cosa? — Kedar lanciò un’occhiata ad Adena, inarcando le sopracciglia.
— Il mio scopo è quello di trovare Ahriman e ucciderlo — dissi.
— Ahriman? In nome dei venti demoni della notte, chi è questo Ahriman?
— In questa unità non c’è nessuno che si chiami così — intervenne Adena.
— Ahriman non è uno di noi — spiegai. — È una creatura diversa, è intelligente, ma non è del tutto umano, è pericoloso e molto potente… — E fornii una descrizione dettagliata del Tenebroso.
A ogni mia parola, le loro facce sembravano sempre più sorprese e sconcertate.
Quando ebbi finito, Adena disse: — E il tuo incarico speciale è quello di trovare questa persona e ucciderla?
— Sì. Sono stato mandato qui proprio per questo.
— Da chi?
— Da Ormazd — risposi.
Si guardarono in faccia. Quel nome evidentemente non significava nulla per loro.
— Avete sentito parlare del tenebroso Ahriman? — domandai. — Sapete dove possa trovarlo?
L’espressione di Kedar si mutò in un sorriso sarcastico. — Resta qui ancora un giorno, e vedrai, Orion. Non appena la bufera passerà, ne vedrai tanti di uomini uguali a quello che hai descritto da farne indigestione, uomini con la pelle grigia e gli occhi rossi.
— Non capisco.
— Non lo sai che siamo in guerra con loro? — disse Adena.
— Guerra? Con… con chi?
— L’uomo che hai descritto — spiegò Adena. — questo pianeta era pieno di gente come lui. Siamo qui per eliminarli.
— Ma siamo tagliati fuori dalle altre unità — aggiunse subito Kedar. — Quelli si stanno ammassando là fuori in mezzo alla neve… a centinaia. Forse, migliaia. Ci attaccheranno non appena finirà la bufera. Ci annienteranno. Le nostre radio sono disturbate. Non possiamo comunicare.
Ma io ignorai quasi le sue parole disperate. Avevo la mente in tumulto. La Guerra! Quella doveva essere La Guerra!
35
Adena e Kedar ben presto mi lasciarono andare. Non sapevano che farsene di un uomo che evidentemente era impazzito durante i combattimenti o si fingeva pazzo per imboscarsi ed evitare di combattere. Dovevano pensare a difendere la caverna dall’attacco che sarebbe iniziato non appena fosse cambiato il tempo.
Mi avviai verso l’imboccatura della caverna, sentendo su di me gli sguardi degli altri soldati. Fuori il vento spirava ancora violentissimo, gelido.
Rabbrividii, e tornai nel calore dei radiatori.
Rena mi prese di nuovo in consegna, portandomi accanto a un gruppetto di uomini e donne che stavano scaldando dei pasti precotti in una specie di forno a microonde. Mangiammo in silenzio. Ad uno ad uno, i soldati si alzarono e tornarono alle ridicole brandine fluttuanti, dove controllarono le loro armi con aria truce.
L’unica persona un po’ allegra della squadra era un tipo giovanile che si presentò come Marek, specialista delle comunicazioni. Mi mostrò gli schermi e i quadri di comando di cui doveva occuparsi.
— I bruti stanno disturbando tutte le nostre trasmissioni in partenza — disse con una voce simpatica, come sedesse descrivendo il funzionamento dell’impianto. — Non so come facciano, ma ci riescono maledettamente bene.
— I bruti? — chiesi.
Annuì. — Il nemico, i tipi con la pelle grigia e gli occhi rossi. — Si ingobbì, ritraendo il collo e alzando le spalle, poi fece qualche passo strascicando i piedi, assumendo per quanto possibile un’espressione cupa e minacciosa. Tenendo conto che era un giovanotto esile, era un’imitazione abbastanza riuscita dell’essere che conoscevo come Ahriman.
— Comunque — proseguì Marek, rilassandosi — stanno disturbando le nostre trasmissioni, così non possiamo dire ai comandanti su nelle navi in orbita dove siamo e cosa abbiamo di fronte.
— Siamo isolati — dissi.
Marek annuì di nuovo, tranquillamente, come se il problema si riducesse a un semplice guasto delle apparecchiature.
— Le trasmissioni in arrivo le riceviamo quasi tutte. Gli ordini dall’Alto… — e puntò un dito verso il soffitto della caverna — …ci arrivano chiari. E le carte meteorologiche. E le analisi multispettrali che ci indicano i punti in cui i bruti stanno ammassando le loro forze.
Indicò uno schermo e batté sulla tastiera. Lo schermo si accese, mostrandomi un vortice di nubi, una gigantesca massa ciclonica vista dalle telecamere di un satellite.
— Questi siamo noi… questo punto dove c’è il cursore — disse Marek, battendo il dito su una macchiolina verde che lampeggiava in basso a sinistra sullo schermo.
Mentre osservavo l’immagine, spalancai gli occhi. Le nubi coprivano una buona metà dello schermo, ma dove era visibile la terra, distinguevo contorni geografici sorprendentemente familiari. Una lunga penisola protesa in un grande mare; sembrava l’Italia, solo che la forma presentava lievi diversità e la punta dello stivale italico era attaccata a quella che un giorno sarebbe stata l’isola di Sicilia. Sopra quell’unica forma riconoscibile, una distesa ininterrotta di bianco. I ghiacciai coprivano quasi tutta l’Europa. Quella era proprio l’Era Glaciale.
Marek mi chiese: — Visto abbastanza? Pronto per le brutte notizie?
Annuii.
Batté di nuovo sulla tastiera e le nubi scomparvero dallo schermo, mostrando il terreno, o meglio il ghiaccio, sotto di esse. L’immagine si ingrandì, avvicinandosi alla superficie, finché non apparvero dei picchi grigi di granito che affioravano dalla neve.
— Questa è la nostra caverna — disse Marek, indicando di nuovo il cursore. — E qui… — aggiunse battendo un tasto — qui ci sono i bruti.
Una marea di puntini rossi balzò in evidenza sullo sfondo bianco. Erano almeno un migliaio, disposti lungo un semicerchio approssimativo rivolto verso il nostro rifugio.
Dunque eravamo isolati dal resto delle nostre forze e in netta inferiorità numerica, mentre attendevamo che il nemico attaccasse.
Per quanto sembrassero giovani, i soldati attorno a me avevano all’attivo molte battaglie. Non perdevano tempo a preoccuparsi. Mangiarono, controllarono le armi, quindi cominciarono a stendersi sulle brandine e a dormire come se non esistesse il pericolo.
— Tanto vale fare un sonnellino intanto che si può — mi disse Marek imperturbabile. — La bufera non smetterà per altre sei ore, e i bruti non attaccheranno prima d’allora.