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La mia rabbia svanì, la confusione rimase. — Chi sei? — le domandai, quasi senza accorgermene. — Cosa sei? E Ormazd, cosa…?

Mi zittì posandomi un dito sulle labbra. — Sono umana e mortale quanto te, Orion. Non sono sempre stata così, però ho scelto questa condizione. Posso soffrire, posso morire.

— Però poi vivi ancora — dissi.

— Anche tu.

— Tutti?

— No, non tutti — rispose. — La capacità esiste. Ogni essere umano può vivere oltre la morte. Ma pochissimi se ne rendono conto, pochissimi riescono a sfruttare questa loro potenzialità.

— Tu ci riesci.

— Sì, certo. Tu, invece, no. Ormazd deve intervenire per te. Altrimenti vivresti solo per la durata di una vita e moriresti come gli altri della tua specie.

— La mia specie. Dunque, tu non appartieni alla mia specie. Hai detto che hai scelto tu di diventare umana. Questo significa che sei… qualcos’altro.

Il sorriso di Adena esprimeva la tristezza di una conoscenza eterna. — Sono quella che un giorno la tua gente chiamerà una dea. Costruiranno templi dedicati a me. Ma io voglio essere umana. Voglio stare con te… Ormazd me lo permetterà.

36

Fissai lo sguardo sui suoi occhi grigi e vidi vortici infiniti, ruote cosmiche, l’intero continuum di stelle, galassie, atomi e quark, che girava in un ciclo interminabile di creazione e mutamento. Non capivo, non potevo capire, quello che Adena mi stava dicendo. Ma le credetti, fino all’ultima parola.

Ero innamorato di una dea, una dea che un giorno sarebbe stata adorata dagli esseri umani, esseri umani creati dagli dei… Il ciclo della creazione, la ruota della vita, il continuum dell’universo.

Il continuum che Ahriman cercava di distruggere.

L’aura argentea che ci circondava si dissolse, e una raffica di vento gelido mi fece rabbrividire. Sentii l’ululato della bufera, poi le voci attutite dei soldati all’interno della caverna. La mano di Kedar si strinse attorno all’oggetto che stava prendendo. Eravamo rientrati nel normale spazio-tempo.

— Il vento ha cambiato direzione — disse Adena. — Tra poche ore la bufera cesserà, e loro ci attaccheranno.

Tornai a concentrarmi sul presente. — Possiamo resistere?

Finché abbiamo energia. Quando le batterie saranno scariche, però… — Adena lasciò la frase in sospeso.

— Ci sono gli altri — dissi. — Ci sono altre unità nel settore, no? Non arriveranno dei rinforzi?

Adena esitò un istante, poi rispose: — Questa è l’ultima battaglia. I bruti che si stanno radunando là fuori sono gli ultimi rimasti.

— E noi? Vorresti dire che noi siamo tutto quello che rimane dell’esercito umano?

— Siamo gli ultimi umani superstiti.

— Ma… i comandanti, le navi in orbita?

Adena scosse il capo. — Non ci sono navi, né comandanti. Le trasmissioni che Marek riceve provengono da Ormazd. Non vuole che lo sappiamo, ma siamo completamente soli qui. Non avremo nessun aiuto.

— Non capisco!

Un sorriso amaro le incurvò nuovamente le labbra. — Tu non sei tenuto a capire. Ti ho già detto molte più cose di quel che voleva Ormazd.

Si staccò da me; non era più la dea adesso, ma il comandante di una squadra di soldati in trappola, sacrificabili. Restai all’imboccatura della caverna, lasciando che il vento mi frustasse, apprezzando quasi il suo morso gelido. I pensieri che mi turbinavano nella testa si rincorrevano inutilmente, mentre là fuori nella bufera il nemico era in attesa. Quel gruppetto di uomini e di donne aveva in mano le sorti del continuum. Presto sarebbe iniziata la battaglia, e il vincitore avrebbe ereditato il mondo, l’universo, l’eternità.

— Orion?

Mi girai e vidi Rena che mi osservava apprensiva.

Cercò di sorridere. — Il comandante dice che dovremmo mettere subito le armature e controllare le armi.

Annuii e la seguii nell’area dove galleggiavano le brandine. Gli altri stavano infilandosi le corazze. Presi la mia e imitai Rena: prima il tronco, poi le gambe, gli scarponi, le braccia, i guanti incredibilmente sottili, e infine la cintura. Quindi presi il casco; era dotato di un comunicatore interno e di una visiera che si abbassava fino a coprire completamente la faccia. La visiera era trasparente dall’interno, ma opaca all’esterno. Per riconoscere gli altri bisognava guardare gli stemmi sulle spalle e i nomi sulle targhette.

Dopo avere controllato le armature, Rena mi condusse accanto alle batterie che Kedar custodiva e curava con tenerezza, e caricammo gli accumulatori delle corazze. Poi ci unimmo agli altri, in fila per la distribuzione delle armi.

Sotto lo sguardo di Adena, Ogun, l’armiere corpulento e arcigno della squadra, consegnò a ogni soldato un paio di armi: un oggetto a canna lunga simile a un fucile e una pistola che si collegava alla batteria della corazza.

Quando mi fermai di fronte a lui, Ogun mi squadrò accigliato e si girò verso Adena.

— Dagli una pistola — gli ordinò lei. — Starà al cannone, con me.

La pistola era uguale a quella che mi ero ritrovato addosso quando mi ero risvegliato in mezzo alla bufera. La strinsi nella mano guantata.

— Ha una batteria autonoma — disse Rena — però secondo il regolamento bisogna collegarla alla corazza. Così aumentano la portata e la durata.

La guardai e annuii. Era strana con quella corazza e quel casco, sembrava quasi una bambina che giocasse alla guerra. Ma quello non era un gioco, come potevo vedere dalle espressioni serissime che c’erano attorno a me.

Erano soldati esperti. Una volta armati, si portarono all’ingresso della caverna e presero posizione in modo da coprirsi a vicenda e martellare nello stesso tempo la distesa di neve che saliva verso la caverna.

Rimasi in mezzo alla caverna, incerto, osservando gli altri, non sapendo cosa fare. Rena mi rivolse un sorrisetto frettoloso e raggiunse una cassa metallica su un lato della caverna. Toccò alcuni pulsanti sulla sommità, e la cassa si staccò di parecchi centimetri dal pavimento, levitando, seguendola come un cagnolino obbediente verso l’ingresso.

— Puoi aiutarmi — disse Ogun. Aveva una voce burbera, come la faccia. S’incamminò verso i recessi più interni della caverna. Lo seguii.

— Rena è l’esperta di guerra batteriologica — mi disse, senza che gli avessi chiesto nulla. — I suoi strumenti controllano che i bruti non ci lancino contro virus e microbi. Abbiamo perso un sacco di bravi ragazzi prima di accorgerci di quello che sapevano fare i bruti con quei piccoli assassini. Veleni istantanei. Roba che paralizza, che ti strappa e ti rigira le budella, che acceca, che soffoca… ne hanno di veramente eccezionali.

— Agiscono all’istante? — chiesi.

— Non fai neanche in tempo a dire bah — rispose Ogun mentre ci infilavamo in un cunicolo che si apriva nella roccia. — È per questo che bisogna tenere giù la visiera e respirare solo l’aria della corazza finché Rena non ci da il via libera. Capito?

— Signorsì.

Ogun contrasse la faccia in una smorfia che assomigliava vagamente a un sorriso. Nonostante l’aspetto e il comportamento arcigno, era un tipo a cui stava a cuore la sorte di quelli che gli stavano attorno.

— Bene; — sbuffò — eccolo. Mettiamolo in posizione.

Si trattava di un ammasso di tubi e serpentine che ricordava lontanamente un cannone. Ogun attivò i sollevatori gravitazionali, e il cannone si alzò da terra. Lo spingemmo nel passaggio buio verso l’imboccatura della caverna, e Ogun a ogni passo mi raccomandava di stare attento a non farlo sbattere contro le pareti di roccia.