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— Sei stato creato per dare la caccia ad Ahriman.

— Sì, ma perché! Non credo alla storia che mi ha raccontato Ormazd. Ahriman non avrebbe potuto distruggere l’universo. Sono tutte sciocchezze Ormazd mi ha mentito.

— No. È tutto vero.

— Allora mostrami la verità. Fammi capire!

Anya annuì, serissima. — Dovrai entrare di nuovo nel flusso temporale. Dovrò mandarti in un punto dello spazio-tempo che precede l’Era Glaciale, prima che gli esseri umani esistessero sulla Terra.

— Benissimo, mandami là. Sono pronto.

Anya sospirò, esitando. — Non sarò con te, però. In nessuna forma. Sarai completamente solo… a parte…

— A parte?

— Vedrai — rispose Anya. — Per ora ti basti sapere che non ci saranno altri esseri umani sulla Terra, altre creature come te.

— Ormazd non li avrà ancora creati — mi resi conto.

— Esatto.

— Ma ci sarà gualcun altro — azzardai. Poi un’intuizione mi illuminò la mente. — La gente di Ahriman! Ci saranno loro sulla Terra!

Anya non rispose, ma le lessi negli occhi che era vero. Spostai lo sguardo verso Ahriman, imprigionato nella sua rete di energia; nei suoi occhi ardeva un furore che avrebbe potuto distruggere mondi interi, se mai avesse trovato libero sfogo.

44

Anya mi disse di chiudere gli occhi e di riaprirli solo quando avessi sentito il vento sulla pelle. Per un attimo rimasi a contemplare il suo volto, bellissimo e grave.

Dopo quella volta non l’avrei più rivista, lo sapevo. Il mio sarebbe stato un viaggio senza ritorno.

Avrei voluto abbracciarla, baciarla, dirle per l’ultima volta che l’amavo disperatamente. Ma lei era una dea, non una donna. Potevo amarla come Agla la strega, o Ava la cacciatrice. Potevo amare Aretha, che conoscevo appena, o Adena, che guidava la sua squadra in battaglia. Ma quella dea vestita d’argento era fuori della mia portata, lo sapevo. Ormazd aveva ragione; un batterio non può diventare un uccello; una dea non può innamorarsi di una scimmia.

Chiusi gli occhi.

— Tienili chiusi finché non sentirai il vento su di te — mi disse la sua voce soave.

Annuii. Poi sentii un lieve contatto sulla guancia. Le sue dita, forse. O forse le sue labbra che mi sfioravano. Bruciavo per lei, ma mi ritrovai paralizzato. Non potevo aprire i pugni, non potevo muovermi. I miei occhi non si sarebbero aperti anche se avessi voluto aprirli.

— Addio, amore — mormorò Anya, senza che potessi risponderle.

Per un attimo rimasi bloccato nell’oscurità, privato di qualsiasi stimolo sensoriale. Non vedevo, non sentivo, non percepivo.

L’udito fu il primo a tornare. Mi giunse un suono sommesso, una specie di sospiro, il mormorio di qualcosa che non sentivo da tanto tempo, che avevo quasi dimenticato: una brezza mite che faceva frusciare gli alberi.

Sentii quella brezza sul viso, calda, dolce, carezzevole. Aprendo gli occhi, vidi che mi trovavo in una foresta di piante immense… sequoie, apparentemente. I tronchi giganteschi erano più grossi di una casa, e si innalzavano verso un cielo azzurro punteggiato di nuvole come pilastri di una cattedrale mastodontica.

A parte il mormorio del vento, la foresta mi sembrava silenziosa. Ma mentre me ne stavo estasiato all’ombra di quelle fronde maestose, cominciai a riconoscere in sottofondo i rumori della vita: richiami di uccelli, il gorgoglio di un torrente lontano, lo zampettio di qualche piccola creatura pelosa nel sottobosco rado.

Che mondo stupendo! A Dal, ad Ava e al loro clan sarebbe piaciuto moltissimo vivere in un posto simile. Anche Subotai e il Gran Khan, per quanto fossero rudi guerrieri, si sarebbero stabiliti volentieri lì. C’era tutto quello che un uomo poteva desiderare… tranne la presenza di altri esseri umani.

Vagai nella foresta per ore, raccogliendo bacche da un cespuglio, bevendo l’acqua di un ruscello chiassoso, godendomi la pace e la gioia di un mondo incontaminato dalla guerra e dalla violenza omicida.

“E se Anya mi ha mandato qui per liberarsi di me con la maggior delicatezza possibile?” cominciai a chiedermi. Era un ottimo mondo, un luogo dove si poteva vivere comodamente, a parte l’assenza di compagni. Era così che Anya aveva pensato di esiliarmi, di allontanarmi dalla sua presenza? Un limbo piacevole? Una Siberia calda e accogliente? Avrei trascorso lì il resto della mia solitaria esistenza, tranquillamente, e una volta morto non l’avrei più infastidita… Come mettere nella cuccia un cane quando non si ha più bisogno di lui e non lo si vuole più tra i piedi.

Scossi la testa. No, Anya non mi avrebbe mai mentito. Mi aveva mandato lì perché potessi capire lo schema globale della realtà, per una ragione precisa, non semplicemente per sbarazzarsi di me, continuai a ripetermi. Dovevo crederci. Non avevo nient’altro a cui aggrapparmi.

Il sole stava calando dietro una catena di colline che scorgevo a stento, lontanissime, tra le colonne massicce degli alberi. Le ombre si allungarono nell’oscurità del crepuscolo, ma l’aria era ancora calda e profumata di fiori. Indossavo una casacca senza maniche e dei calzoni al ginocchio, di pelle. Ai piedi avevo un paio di sandali di cuoio. Eppure, anche quando sopraggiunse la notte, non avevo freddo. Il terreno era morbido e muschioso; mi coricai e mi addormentai quasi subito.

Nei miei sogni vidi quella Terra primitiva come avrebbe potuto vederla un dio, come la vedevano indubbiamente Anya e Ormazd… Una splendida sfera azzurra incastonata nelle tenebre gelide dello spazio, ornata di festoni di nubi di un candore scintillante. Riconobbi i contorni abbozzati dell’Europa e dell’Africa, delle Americhe e dell’Asia, che contrastavano sulla distesa blu degli oceani. L’Atlantico sembrava più stretto, e l’Australia non era ancora un’isola, però quella era proprio la Terra.

L’Artico era libero dai ghiacciai, le sue acque erano Azzurre e invitanti come quelle dell’Equatore. L’Antartide invece era una macchia di un biancore accecante. Non c’erano città, strade, né le cupole grigie e i pennacchi fuligginosi degli insediamenti umani.

Era una Terra priva di esseri umani, priva di forme intelligenti… quasi.

Mi svegliai sentendomi ritemprato fisicamente, ma molto, molto perplesso. Dovevano esserci delle persone, lì; se non le creature umane di Ormazd, la gente di Ahriman almeno. Era per questo che Anya mi aveva mandato lì: perché li incontrassi e li vedessi per quello che erano veramente.

Mi alzai, mi lavai nel ruscello e per colazione mangiai bacche e uova. Non me la sentivo di uccidere uno degli animali che lanciavano i loro richiami nella foresta. Non avevo attrezzi, non avevo armi, e non avevo alcuna voglia di cominciare a fabbricarne.

Invece, mi misi a camminare lungo la riva del ruscello in leggera salita, tra quegli alberi grattacielo che proiettavano sul terreno un mosaico di luce e ombra. L’acqua gorgogliava tra i sassi. Sulla sponda opposta vidi una femmina di daino e i suoi due piccoli che mi osservavano, muovendo a scatti le orecchie, con occhi enormi.

— Buon giorno — li salutai. Non fuggirono. Continuarono a osservarmi finché, sicuri che non rappresentassi una minaccia, ripresero a brucare la vegetazione.

Mentre mi spingevo a monte, apparvero altri cervi, che si muovevano cauti sulle loro gambe sottili, che mi fissavano coi loro occhi innocenti. Dovevano esserci dei predatori lì attorno, pensai. Eppure durante la notte non avevo sentito alcun ruggito felino, né ululati.

Anche se il terreno era in lieve pendenza, procedevo senza difficoltà. Il sottobosco non era folto, e il fondo era coperto da uno strato di muschio elastico e di aghi degli alberi. Gruppi sempre più numerosi di cervi e di animali più piccoli si radunavano sul bordo dell’acqua dove i cespugli e gli arbusti crescevano più fitti. Sembrava quasi che quello fosse un parco, una riserva creata appositamente. “Da chi?” mi chiesi. “Per chi?”