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Verso metà mattina, trovai le risposte che cercavo.

Gli uccelli cinguettavano tra i rami di quegli alberi. Guardai e ne vidi interi stormi, di ogni specie e colore: cardinali rossi, passeri marrone, merli, corvi, pettirossi, tordi, scriccioli. Centinaia, migliaia di volatili posati sui rami, che svolazzavano avanti e indietro, in un chiacchiericcio continuo. Tra loro non c’era un solo rapace… niente falchi, né poiane, ne aquile.

Mentre osservavo, tutti si fermarono, tacquero. Come se aspettassero qualcosa. Poi, a uno a uno, cominciarono a tuffarsi dai loro trespoli, spiegando le ali, lasciandosi quasi scivolare verso il basso, superandomi in volo.

Li seguii con lo sguardo e vidi, in lontananza, dove fossero diretti.

In una piccola radura c’erano alcuni uomini; portavano delle sacche a tracolla, e dalle sacche estraevano manciate di roba che spargevano sul terreno.

Esseri umani! Ero allibito. Anya aveva detto che lì non avrei trovato esseri umani, eppure ce n’erano tre… anzi, quattro, che davano del becchime a un nugolo di uccelli!

Mi avvicinai lentamente, tenendomi dietro gli alberi, in parte per sottrarmi alla nube di pennuti che continuavano a lanciarsi in volo verso il mangime, in parte perché l’istinto mi diceva di non spaventare quegli sconosciuti uscendo allo scoperto troppo presto.

A un certo punto, vidi chi fossero, e per un attimo il cuore mi si arrestò. La gente di Ahriman. Quelli che i soldati di Adena chiamavano bruti. Non sembravano certo molto brutali, intenti com’erano a spargere becchime, lasciando che gli uccelli gli si posassero sulle ampie spalle, ridendo divertiti mentre rimpinzavano quegli stormi multicolori.

Li studiai al riparo di un tronco gigantesco. Sì, erano i compagni di Ahriman, non appartenevano alla mia razza. Facce larghe, zigomi sporgenti, labbra sottilissime. Corpi muscolosi, arti massicci.

D’un tratto, mi sentii completamente vuoto all’interno. Avevo capito chi erano, cos’erano. Uomini di Neandertal. Mi inginocchiai e appoggiai la testa alla corteccia liscia del tronco. Uomini di Neandertal. L’altra razza di primati intelligenti vissuta sulla Terra durante l’Era Glaciale.

Chiudendo gli occhi per concentrarmi, mi sforzai di ricordare le mie scarse cognizioni di antropologia del ventesimo secolo. I neandertaliani erano considerati in pratica umani e intelligenti quanto gli individui della mia specie. Gli scienziati li avevano chiamati Homo sapiens neanderthalensis, per contrapporli all’Homo sapiens sapiens.

Gli uomini di Neandertal si erano evoluti in quattro milioni di anni dalle scimmie, sostituendo i precedenti ominidi quali l’Homo erectus. Poi, di colpo, erano apparsi gli Uomini Sapiens, i miei progenitori che Ormazd sosteneva di avere creato, e i Neandertal si erano estinti. Nessun antropologo sapeva spiegare la loro scomparsa; era stato un fenomeno improvviso nel lento affresco dell’evoluzione.

Prima dell’Era Glaciale gli uomini di Neandertal erano stati i primati superiori più diffusi sulla Terra. Quando i ghiacci si erano sciolti, erano scomparsi, e l’Homo Sapiens più alto e più snello era l’unica specie intelligente del pianeta.

Sapevo cos’era successo. Mentre ero inginocchiato in quella foresta primordiale, quel pensiero mi fece star male.

“Non può essere,” mi dissi “Ci dev’essere dell’altro.” Impossibile che Anya mi avesse spedito lì solo per mostrarmi gli orrori di un genocidio. Nemmeno Ormazd sarebbe stato capace di una simile crudeltà.

Sapevo che era tutto vero, e mi rifiutavo di crederci. Mi feci forza e mi drizzai. Deve esserci sotto qualcos’altro, qualcosa di cui ero ancora all’oscuro, che dovevo ancora scoprire.

Sono sempre stato in grado di controllare il mio corpo fino alla cellula nervosa più periferica. Il coraggio non mi è mai mancato… probabilmente, perché mi è sempre mancata l’immaginazione necessaria per vedere a cosa andavo incontro in termini di dolore e pericolo. Per me è sempre stato più facile agire che riflettere.

Eppure, l’azione più difficile che abbia mai dovuto compiere fu quella di uscire dal nascondiglio dell’albero e mostrarmi ai quattro giovani neandertaliani che stavano dando il becchine agli uccelli nella radura.

Respirai a fondo, calmai il battito del cuore, e m’incamminai verso di loro. Erano giovani, probabilmente adolescenti; avevano folti capelli neri e facce lisce. Stavano ridendo e fischiando, mentre spargevano il mangime sul terreno. Uno di loro aveva teso le mani, e una decina di pennuti gli si erano posati sulle dita, beccando i semi sui suoi palmi.

Gli uccelli mi notarono prima dei neandertaliani, e in un mulinio caleidoscopico di colori volarono in tutte le direzioni senza emettere un solo pigolio… solo un battere d’ali spaventate.

I quattro neandertaliani, improvvisamente soli tra qualche piuma che galleggiava nell’aria, si girarono e mi fissarono a bocca aperta. Alzai le mani, avanzando.

— Sono Orion — dissi. — Vengo in pace.

Si scambiarono delle occhiate, più perplessi che intimoriti. Non tentarono di impedirmi di avvicinarmi, né sembravano minimamente intenzionati a fuggire. Fischiarono tra loro… basse note musicali simili ai richiami degli uccelli, o al linguaggio dei delfini.

Mi fermai, abbassando le mani sui fianchi. — Vivete qui vicino? Volete portarmi al vostro villaggio? — Sapevo che non potevano capire le mie parole, come io non potevo interpretare i loro fischi. Però dovevo instaurare almeno un inizio di comunicazione.

Mi squadrarono per bene, poi mi girarono attorno come se fossi merce d’esposizione. Nel massimo silenzio. Eppure avevo la sensazione che stessero conversando tra loro, senza bisogno di articolare suoni.

Erano parecchi centimetri più bassi di me, ma molto più massicci e muscolosi. Mi sentivo un mingherlino lì in mezzo. Il più alto, che mi arrivava quasi al mento, mi sorrise. Non c’era traccia di paura o diffidenza nei suoi occhi marroni. Solo curiosità.

Mi fissò in silenzio per diversi secondi, e mi parve di sentire le domande nella sua mente: “Chi sei? Da dove vieni? Cosa fai qui?”

Come un turista inglese, parlai lentamente ad alta voce, sforzandomi di farmi capire. — Il mio nome è Orion… — Mi indicai il petto e ripetei: — Orion.

— Ou-rio-n — disse il giovane, nel medesimo mormorio rauco che avevo sentito così, spesso da Ahriman.

— Dov’è il vostro villaggio? — chiesi. — Dove vivete?

Nessuna risposta.

Cambiai tattica. — Conoscete Ahriman? Dov’è Ahriman?

Gli occhi del giovane guizzarono verso i compagni, e questa volta percepii davvero una forma di comunicazione mentale vibrare tra loro. Ahriman, mi echeggiò nella mente. Ahriman.

Un attimo dopo, l’adolescente mi fissò negli occhi e corrugò la fronte concentrandosi. Mi concentrai anch’io, cercando di captare il messaggio mentale che stava trasmettendomi. Niente, a parte la vaghissima impressione della foresta attorno a noi, grandi alberi e poco altro.

Con una scrollata di spalle molto umana, il giovane fischiò alcune note ai compagni, poi mi fece cenno di andare con lui. In cinque, imboccammo un sentiero battuto che partiva dalla radura e si addentrava nella foresta.

45

Il villaggio dei neandertaliani, scoprii ben presto, era negli alberi. Non tra gli alberi, proprio dentro i tronchi giganti di quelle sequoie. Avevano scavato comodi alloggi, alti da terra, con lunghe scale di viticci appese all’interno dei tronchi che portavano su alle loro stanze. I rami ampi e robusti che si allargavano a raggiera a una quindicina di metri di altezza erano i portici e le verande delle loro abitazioni asciutte e ventilate.