All’inizio pensai che la loro tecnologia fosse povera e limitata. Le cose più perfezionate che vedevo erano asce e scalpelli di pietra, e utensili più piccoli di selce o di quarzo. Però avevano il fuoco; erano intelligenti quanto un Einstein o un Budda, e possedevano una forma di telepatia che permetteva loro di vivere in armonia con gli animali e le piante che li circondavano.
Mentre noi Sapiens inventiamo macchine per lavori troppo pesanti per la forza delle nostre braccia, per compiere lo stesso lavoro i neandertaliani addomesticavano, addestravano un certo animale o facevano crescere una certa pianta. Le scale di viticci che usavano erano un ottimo esempio. Erano viticci vivi, con radici nel terreno e grandi foglie verdi aperte al sole lungo i rami degli alberi giganti.
Non andavano a caccia, non coltivavano. Non ne avevano bisogno. Erano autentici raccoglitori. Controllavano mentalmente i branchi di animali, e spingevano i più vecchi e i più deboli verso la loro morte rituale mediante una forma di stimolo persuasivo telepatico. Tenevano animali domestici, come i cani, e anche in questo caso il legame tra cane e neandertaliano era di tipo mentale.
Non avevano una lingua parlata; le loro gole non erano fatte per parlare. Comunicavano mediante un miscuglio elaborato di telepatia, fischi e gesti. Mi impegnai al massimo, e dopo aver vissuto con loro parecchie settimane cominciai ad apprendere in modo approssimativo una forma di contatto mentale. Era una capacità insita nel mio cervello, come nel loro; un dono dell’evoluzione. Ma sarebbe stato necessario un periodo di addestramento prima che riuscissi a comunicare con la facilità dei loro bambini.
I neandertaliani non temevano gli estranei. La guerra e i conflitti erano cose sconosciute nel loro mondo. Dapprima pensai che dipendesse forse dalle loro capacità telepatiche, nel senso che sarebbe stato impossibile attaccarli senza che loro percepissero in anticipo le intenzioni ostili e fossero già pronti a reagire. Mi sbagliavo, anche se ero sulla strada giusta.
Erano pacifici perché grazie alle doti telepatiche si capivano vicendevolmente in modo molto più approfondito di quanto non avrebbero consentito le parole. Non che si leggessero nella mente di continuo, scoprii gradualmente. No, erano abituati dalla nascita a comunicare i sentimenti, le emozioni, oltre ai pensieri e alle idee razionali. Quando un neandertaliano era arrabbiato o turbato o spaventato, tutti quelli attorno a lui lo sapevano subito, e facevano del loro meglio per arrivare alla radice del problema e risolverlo. Nello stesso modo, quando un neandertaliano era felice, tutti lo sapevano ed erano partecipi della sua gioia.
Come eravamo soli noi Sapiens! Chiusi nei nostri crani con le nostre personalità individuali, impegnati in goffi tentativi di comunicare attraverso il linguaggio parlato, mentre i neandertaliani esternavano i loro pensieri con la stessa naturalezza con cui il calore irradia da un fuoco. Non c’erano psicoterapisti tra loro… o meglio, loro erano tutti psicologi.
Erano gente mite, nonostante la corporatura possente e muscolosa. I loro occhi marroni innocenti mi ricordavano quelli del daino femmina e dei suoi piccoli che avevo visto il primo giorno in cui ero giunto in quell’era. Non fingevano, probabilmente non erano capaci. Perfino il metodo che usavano per uccidere i capi più deboli delle loro mandrie non aveva nulla di cruento: tramite il controllo mentale sull’animale facevano cessare il battito del suo cuore. L’animale cadeva e moriva all’istante senza soffrire.
I giorni divennero settimane, mentre vivevo tra loro, ospite della famiglia dell’adolescente più alto del gruppetto che avevo incontrato nella radura. La loro casa, come le altre, era a una quindicina di metri dal suolo, in una solida sequoia. La famiglia era formata dai genitori, Tohon e la moglie Huyana, dal figlio Tunu, e dalla figlia, Yoki, che aveva cinque o sei anni. Mi avevano accettato come ospite, dopo che l’intero villaggio, un centinaio di persone, si era riunito in una radura ai piedi dei loro alberi per decidere come regolarsi con me.
Fu un’esperienza sconvolgente… trovarsi in mezzo a tutti quei neandertaliani, sapendo che stavano parlando di me, ma senza poter sentire una parola. A parte alcuni fischi e qualche cenno di mano o di capo, la discussione si svolse nel più assoluto silenzio.
Visto che non potevo ascoltarli, studiai le loro facce. Non erano affatto i selvaggi dall’andatura ingobbita e dalle sopracciglia cespugliose e sporgenti dipinti dai Sapiens del ventesimo secolo. Avevano la faccia più larga della mia, le arcate sopraccigliari più marcate, il mento sfuggente, ma complessivamente i toro lineamenti non erano poi così diversi dai miei. Non erano più pelosi di me. Le facce degli uomini erano senza barba, e dopo parecchi dolorosi tentativi di rasatura con un coltello di selce scoprii che loro si radevano con un unguento ricavato dalle foglie di un arbusto.
Evidentemente, decisero che avrei vissuto tra loro, e il padre di Tunu accettò l’impegno… anche se, per quanto ne sapevo allora, poteva darsi che lo considerassero invece un onore.
Quel primo giorno, vidi come riuscissero a scavare i loro alloggi nei tronchi. Tulu mi presentò alla sua famiglia, a costo di grandi sforzi, indicando ognuno e pronunciando i nomi più volte col solito mormorio stentato; poi suo padre mi accompagnò nella casa.
Seguii Tohon lungo la scala di viticci fino alla loro stanza centrale, un’ampia cavità nel legno vivo, con una finestra rotonda da una parte, e una porta aperta che dava su un ramo abbastanza largo da permettere a tutti e cinque di stare sulla sua superficie appiattita contemporaneamente. I mobili erano un insieme di sgabelli e di oggetti a forma di tavolo, questi ultimi sembravano fuori posto eppure avevano un che di familiare. Poi mi resi conto che erano in realtà dei grossi funghi modellati secondo le esigenze dei neandertaliani. Fu allora che compresi che alteravano il mondo circostante, sia vegetale che animale, per soddisfare i propri bisogni.
Tohon mi condusse fuori sull’ampia veranda verde e mi mostrò come facessero ad allargare l’alloggio quando arrivava un ospite. Mandò Tunu lungo il ramo, verso un ramo più piccolo dove crescevano fitti grappoli di aghi. Il ragazzo tornò con una ciotola di legno piena di un liquido denso che doveva essere linfa o qualcosa del genere.
Seguii Tohon all’interno e lo osservai mentre iniziava a stendere la linfa sulla parete della loro stanza principale. Il liquido sapeva di resina di pino, ma aveva un odore più penetrante. In un cantuccio, intanto, Huyana e Yoki studiavano in silenzio una serie di ciuffi d’erba e di foglie che avevano sparso sul pavimento: una lezione di botanica, o più probabilmente di scienze alimentari.
Il tutto si svolgeva nel massimo silenzio. Non mi ero mai accorto fino a che punto noi Sapiens dessimo per scontato il nostro costante vociare. Il rumore ci accompagna dai vagiti della nascita alle ultime parole dette in punto di morte. I neandertaliani vivevano in un mondo di quiete, interrotta solo dai suoni naturali del vento, delle foglie, dei canti degli uccelli, dei richiami degli animali. Abituandomi progressivamente a quel sistema di vita così silenzioso, cominciai a chiedermi se la mancanza di violenza nei neandertaliani fosse legata in qualche modo alla loro mancanza di strumenti e apparecchi rumorosi.
Osservando l’opera di Tohon, quel primo giorno, spalancai gli occhi di sorpresa mentre il liquido che stendeva sulla parete curva cominciava a corrodere il legno. Dapprima intaccava lentamente la superficie, producendo un lieve sfrigolio e un odore un po’ acre. Poi sembrava che il legno si dissolvesse, si sciogliesse.
Tunu mi sorrise, arricciando le labbra sottili e mettendo in mostra una dentatura scintillante. Probabilmente dovevo essere rimasto imbambolato.