Tohon rivolse un gesto frettoloso al figlio, e i due presero a stendere energicamente il liquido sui lati e sul fondo della nicchia che si era appena creata. Quella sostanza scioglieva il legno, eppure non aveva alcun effetto dannoso sulle loro mani… un bel mistero.
Pochi minuti dopo, Tohon sembrò soddisfatto del lavoro. Tunu uscì lungo il ramo con la ciotola quasi vuota, mentre suo padre si accovacciava sul pavimento e mi indicava di sedermi accanto a lui.
Huyana servì un pasto a base di verdura bollita e frutta fresca. La cucina era sotto quella stanza. Quando terminammo di mangiare, la linfa acida aveva completato il suo lavoro, e c’era una comoda stanzetta per me scavata nel legno vivo, collegata alla camera centrale da un breve corridoio curvo. Non c’era bisogno di porte; l’intimità era protetta dalla disposizione geometrica.
Tohon esaminò la nuova stanza, e per un attimo sembrò piuttosto agitato. Senza muoversi, senza emettere un suono, si concentrò corrugando la fronte. Tunu tornò con la ciotola e dipinse una finestrella rotonda per me. Tohon annuì, finalmente soddisfatto.
Pensai che si fossero dimenticati del fatto che avevo chiesto di Ahriman, quel primo giorno. Col trascorrere delle settimane, abituandomi al silenzio e alla tranquillità dell’ambiente, anch’io per poco non mi dimenticai di Ahriman. Passavo buona parte del tempo cercando di imparare a comunicare con loro mentalmente, e un po’ alla volta cominciai a capire l’arte del parlare senza emettere suoni. Le mie capacità erano a dir poco misere, comunque mi accorsi che certi neandertaliani comunicavano meglio di altri. Tunu, l’adolescente sorridente, era quello con cui conversavo con maggior facilità. Anche con molti giovani non c’erano problemi. Era più difficile conversare con gli adulti, invece, forse perché erano più chiusi e circospetti. E le donne neandertaliane poi, perfino la piccola Yoki, erano un muro insuperabile, in quanto a comunicazione telepatica. Era una cosa voluta, ne ero sicuro; d’accordo che gli uomini conversassero con lo straniero allampanato, le donne invece dovevano avere deciso di mantenere le distanze, sia fisicamente che mentalmente.
Non che Huyana o le altre non fossero gentili e cortesi con me… tutt’altro. Semplicemente, le donne restavano al di fuori della mia portata per qualsiasi tipo di comunicazione.
Di notte, steso su un materasso di muschio senza riuscire a dormire, mi chiedevo cosa stesse facendo Anya, perché mi avesse mandato lì e per quanto tempo mi avrebbe tenuto tra i neandertaliani. Nella mente cominciai anche a covare paure paranoiche: Ormazd aveva deciso di tenermi lì per sempre, anche se Anya voleva riportarmi da lei. O peggio ancora, tutti e due si erano accordati perché restassi in quell’esilio silvestre; stavano ridendo di me, solo e impotente tra persone con cui non potevo nemmeno parlare.
Pensai ad Ahriman, e alla decisione di Ormazd che intendeva tenerlo prigioniero in quella rete di energia, in quella stasi fuori dal tempo… vivo, ma intrappolato, soffocato. Ormazd stava facendo lo stesso con me, lo sapevo. E non potevo reagire in alcun modo. Ogni notte frugavo in ogni molecola della mia mente, in cerca di un sistema che mi permettesse di fuggire da quella prigione idilliaca, e immancabilmente allo spuntare dell’alba dovevo dichiararmi sconfitto. Non c’era possibilità di fuga per me. Nessuna, a meno che, o finché, Anya o Ormazd non avessero deciso di consentirmi di tornare.
Cominciai a perdere il conto dei giorni. Più o meno erano tutti uguali. Un paradiso di pace e di abbondanza, senza rabbia, senza assassinio, senza guerra. Eppure non potevo accettarlo; non potevo accontentarmi.
Poi, una mattina, non appena fui sceso dalla scaletta della casa di Tohon, Tunu mi venne incontro di corsa, trafelato, eccitato.
— Ahriman! — esclamò ad alta voce.
Sbattei le palpebre sorpreso. — Ahriman? Sta venendo qui?
Tunu annuì vigorosamente. — Sì, sta arrivando dal sentiero. — Ero così eccitato che non mi resi conto che stava parlando telepaticamente e che lo capivo.
Mi fece segno di seguirlo. Vidi che l’intero villaggio stava uscendo in massa dalle case e si radunava nella radura; la gente si urtava, si udiva uno scambio di fischi, tutti fissavano il sentiero. Raccolsi abbastanza vibrazioni telepatiche da capire che erano tutti eccitati. Ahriman era uno dei loro più grandi capi, un uomo di intelligenza elevata, dai numerosi pregi, un poeta e un filosofo la cui fama si estendeva a tutte le regioni abitate dai neandertaliani.
“Non può essere lo stesso Ahriman che ho conosciuto,” mi dissi. L’immagine mentale che ricevevo dalla folla era molto diversa da quella del personaggio cupo, tormentato, rabbioso e vendicativo che avevo incontrato.
Ma quando lo vidi avanzare lungo il sentiero, sorridendo alla gente radunatasi per accoglierlo, mi accorsi che si trattava proprio della stessa persona.
Ahriman. Un Ahriman più giovane di quello con cui avevo lottato, ma inconfondibile. Era più alto degli altri neandertaliani, più massiccio, i suoi occhi esprimevano la solita intelligenza a me fin troppo nota. Però non erano ancora gli occhi rossi e colmi di odio dell’Ahriman che cercava di distruggere il continuum. Quello era il volto di un uomo nel fiore degli anni, un uomo che viveva felice, soddisfatto del proprio ambiente e del proprio ruolo. Non aveva ancora scoperto l’odio. Non aveva bisogno di vendicarsi… non ancora.
Sorrise e annuì. La folla si sedette subito sul terreno, smaniosa. Io restai in piedi.
Gli occhi di Ahriman incontrarono i miei. Il suo sorriso non mutò. Nessuna reazione che tradisse un minimo di rabbia o di ostilità. Non sembrava neppure sorpreso. Evidentemente, gli altri gli avevano già parlato della presenza di uno straniero. Dovevano avergli detto anche il mio nome. Ma era altrettanto evidente che il mio nome, il mio aspetto, la mia presenza, non significavano nulla per lui. Non aveva paura di me. Non era in collera. Da lui captavo solo una lieve curiosità.
Lentamente, mi sedetti anch’io, tra Tunu e un altro adolescente. Chiusi gli occhi e mi concentrai al massimo per cogliere quello che Ahriman avrebbe detto telepaticamente.
Non c’era bisogno che mi sforzassi tanto. Ahriman era la voce telepatica più potente che avessi mai incontrato. Lo capivo quasi alla perfezione.
Ahriman cantò.
A differenza di noi Sapiens, non usava parole né suoni musicali. Cantava coi pensieri, i suoi erano concetti mentali che suscitavano colori, forme, ricordi, impressioni nella mia mente. Spalancai gli occhi, la testa piena di una bellezza e di un’armonia ineguagliabili. I neandertaliani attorno a me avevano lo sguardo fisso nel vuoto, estasiati dall’inizio del canto di Ahriman.
Richiusi gli occhi, questa volta per escludere la vista dispersiva del mondo, e immergermi nella visione che Ahriman mi proiettava nella mente.
Era un canto, un poema, una dissertazione, una storia, un resoconto… tutte queste cose insieme. Vidi i vari luoghi che Ahriman aveva attraversato dall’ultima volta in cui era stato in quel villaggio. Mi resi conto che era un vagabondo, un nomade che collegava gli insediamenti sparsi dei neandertaliani, come noi Sapiens un giorno avremmo imparato a collegare le nostre comunità mediante dei circuiti elettronici.
Vidi gli altri loro villaggi, tra dirupi ghiacciati su a nord, lungo tiepidi litorali marini, capanne di fango e paglia in vaste steppe brulle. Sentii lo spirito di unità di tutti quei villaggi, il legame tra i loro uomini e le loro donne, i vincoli di sangue e di affetto che li univano. E Ahriman ci mostrò altre cose: cominciò a rivelarci i suoi pensieri, le idee e gli interrogativi che gli riempivano la mente quando guardava il cielo notturno stellato. Ci mostrò l’armonia delle stelle, i ritmi dei pianeti che si muovevano, la gloria del sole nato dal freddo e dalla polvere che aveva acquistato la propria forza unendo tutte le miriadi ai granelli in un unico, fulgido abbraccio.