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Ahriman ci portò tra le stelle e ci aiutò a vagare in regni di bellezza indicibile. Poi, lentamente, con grande rispetto e dolcezza, ci riportò sulla Terra, in quella radura, al presente.

Aprendo gli occhi, notai che i neandertaliani non conoscevano il pianto. Io però avevo il volto rigato di lacrime ora che il canto di Ahriman era terminato e il cuore pieno di commozione.

46

I neandertaliani non applaudirono. Certe manifestazioni rumorose non appartenevano alla loro cultura. Però, con le mie deboli facoltà telepatiche, avvertii l’enorme ondata di approvazione e di ringraziamento che attraversò la folla, accompagnata da qualche fischio e da qualche borbottio. Ahriman annui più volte, accettando l’ovazione silenziosa. Poi l’assembramento si sciolse, e tutti tornarono alle proprie faccende. Mi alzai, dopo essermi asciugato le lacrime che mi appannavano gli occhi.

— Tu sei Orion — disse Ahriman in silenzio.

Eravamo soli nella radura, adesso. Mi guardò rivelando solo una certa curiosità. Non mi aveva mai visto prima di allora. Ero io ad avere dei ricordi, non lui. Ricordai cosa avessi provato la prima volta che lo avevo incontrato, in quella camera sotterranea nel ventesimo secolo. Com’ero confuso allora; lui sapeva tutto, io nulla. Ora sapevo di tutti i nostri scontri, della Guerra e degli sviluppi successivi, mentre lui era innocente come un neonato. Eppure mi sentivo ugualmente confuso, incerto.

— Mi è piaciuto il tuo canto — dissi ad alta voce, sapendo che capiva il significato dei miei suoni.

— Grazie.

Mi chiesi cosa dovessi dire a questo punto. Mi chiesi fino a che punto potesse sondare la mia mente. Gli altri neandertaliani non erano capaci di leggere i miei pensieri. Per me era già abbastanza difficile trasmettere loro semplici brani di conversazione. Ma i poteri telepatici di Ahriman erano di gran lunga superiori.

— Da dove vieni? — mi chiese, lasciandomi sconcertato. O non poteva sondarmi la mente o era troppo educato per farlo.

— Da lontano — risposi. Poi aggiunsi: — Da un luogo più lontano nel tempo che nello spazio. Vengo dal futuro, da un futuro lontano migliaia di anni.

Ahriman corrugò la fronte perplesso. — Dal futuro?

— Come vedi, non appartengo alla tua razza.

— È vero.

— La mia esistenza è iniziata più di centomila anni dopo questa epoca, e sono stato mandato qui.

Colsi un vago pensiero che esprimeva dubbi sulla mia sanità mentale, ma durò un attimo.

— È vero — dissi. — Non so come si faccia, ma sono stato mandato in questo tempo e in questo posto.

— Da chi? A che scopo?

Ignorando la domanda, proseguii: — Un giorno tu imparerai a viaggiare nel tempo e nello spazio. Ci incontreremo molte volte, in ere diverse…

— Io viaggerò nel futuro? — Ahriman sembrava affascinato dalla prospettiva.

— Sì.

— Con te?

Scossi la testa. — Non viaggeremo insieme, non saremo compagni di viaggio. Però ci incontreremo nel futuro, molte volte.

Un sorriso illuminò quel viso dai lineamenti forti. — Viaggiare nel futuro! È possibile piegare e intrecciare il tempo come un uomo annoda un pezzo di liana?

— Ahriman! — Dovevo dirglielo. — In futuro… in quelle epoche a venire… noi saremo nemici.

Il sorriso svanì. — Cosa? Com’è possibile…

— Ogni volta che ci incontreremo nel futuro, io cercherò di ucciderti. E tu cercherai di uccidermi.

— È impossibile. — E percepivo la sua sincerità. L’idea della violenza lo disgustava tanto che colsi i fremiti di ripugnanza che inconsciamente trasmise.

— Vorrei che fosse impossibile — dissi. — Ma è già successo. Molte volte. Ci siamo incontrati. Abbiamo combattuto. Tu mi hai ucciso, più di una volta.

Mi fissò negli occhi. Avvertii nella mente un contatto interrogativo. Annuii, mi rilassai e gli permisi di vedere le esperienze vissute: La Guerra, l’alluvione nel Neolitico, lo splendore barbarico di Karakorum, la maestosità tecnologica del reattore a fusione.

— No — mormorò Ahriman, con quella voce strozzata, stentata che conoscevo così bene. — No…

Tremava. Quel neandertaliano dalla corporatura possente tremava da capo a piedi, tanto era nauseato dalle scene viste nella mia mente. E i suoi pensieri mi giungevano chiari e forti, come urla amplificate da un megafono.

— Impossibile… non posso essere proprio io, quello… non io… Quello è pazzo, la sua mente è malata e perversa… nessuno potrebbe mai… le stragi, gli orrori sadici… non sono io. No!

Ahriman si girò e si allontanò quasi di corsa dalla radura.

Chiusi gli occhi e cercai di controllare i miei pensieri. Quando li riaprii, Ahriman era scomparso, ma parecchi neandertaliani, uomini e ragazzi, se ne stavano ai bordi dello spiazzo, fissandomi preoccupati. Avevano colto i miei pensieri, o la reazione di Ahriman? Cosa mi avrebbero fatto se avessero saputo che ero stato creato per uccidere l’uomo migliore della loro razza?

Lentamente, tornai alla casa di Tohon. Tunu era ai piedi dell’albero, conversando con degli amici. Mi rivolse lo stesso sorriso di sempre, e con pochi gesti mi spiegò che suo padre era giù al torrente, dove crescevano gli alberi da frutta, a raccogliere cibo per la festa in onore di Ahriman che si sarebbe svolta quella sera.

Annuii, poi mi arrampicai sulla scaletta vegetale. Huyana stava canticchiando mentre preparava una bevanda dall’aroma speziato sul fuoco della cucina. Il recipiente era una enorme zucca vuota, il focolare era una cavità nel pavimento della cucina, rivestita di pietre piatte, e il fumo usciva attraverso un piccolo condotto di ventilazione in alto.

Esausto e disgustato, rivolsi a Huyana un cenno di saluto, poi mi trascinai lungo il corridoio curvo che portava alla mia stanza e mi lasciai cadere sul mio morbido letto di muschio.

Mi svegliai. Tunu mi stava scuotendo. Emise un fischio e indicò la finestra. C’era quasi buio.

— La festa — mi annunciò senza parlare.

Chissà se Ahriman avrebbe partecipato alla cerimonia in suo onore? Forse le visioni terrificanti che gli avevo mostrato lo avevano spinto a fuggire…

Era presente, seduto a gambe incrociate tra gli anziani del villaggio, quando arrivai. Il grande falò al centro della radura inondava tutto di bagliori rossastri tremolanti. I tronchi colossali delle sequoie ci circondavano come i pilastri dei templi che sarebbero stati innalzati in futuro, proiettando le loro ombre verso la foresta, così che la radura era un cerchio di luce in mezzo all’oscurità.

Inconsciamente mi ero aspettato rulli di tamburo, musica, figure danzanti che si agitavano nel chiarore del fuoco. I neandertaliani invece erano quieti, quasi silenziosi, tranne un mormorio di sottofondo e qualche fischio.

Nelle loro menti, però, ridevano e chiacchieravano, raccontandosi storie, cantando felici. Captavo brani slegati delle loro comunicazioni telepatiche, come un uomo che stesse girando la manopola della sintonia di una radio ricevesse frammenti di trasmissioni di cento stazioni diverse.

Ma quando mi sintonizzai su Ahriman, non captai che un silenzio cupo. Studiai la sua faccia. Era impassibile come una statua di granito. Gli anziani ai suoi lati però non sembravano preoccupati. Rispettavano il suo bisogno di silenzio e intimità, senza dubbio; e si aspettavano che più tardi ci concedesse un altro canto.

Il falò era puramente simbolico. Tutto il cibo era stato preparato dalle donne nelle loro cucine. Non c’erano arrosti di cervo, succulenti maiali allo spiedo, racconti in cui si esaltassero il coraggio e l’astuzia nella caccia. I neandertaliani mangiavano perlopiù verdura e uova, bacche e frutta, e bevevano succo di frutta o acqua che arrivava fresca portata di corsa dai giovani più veloci. La poca carne che avevano, quella degli animali selezionati in base alla debolezza e alla vecchiaia, era considerata un piatto prelibato, una leccornia raffinata in onore di ospiti come Ahriman.