«Non me lo ricordo».
«Beh, comunque adesso è là dentro. E per coronare l’opera, chi è comparso, se non Lambert Finn?»
«Non vorrà mica dire quel Lambert Finn!»
«Proprio lui. È proprio qui, nell’albergo. Domani terrà un grande raduno proprio davanti al deposito dell’autostrada. Ho sentito dire che la polizia ha accettato di tirare fuori la macchina delle stelle, in modo che lui possa predicare e mostrarla a tutti quanti. Le garantisco che varrà la pena di andarsi a godere quello spettacolo. Schizzerà zolfo più di quanto le sia mai capitato di sentire: e dirà il fatto loro ai para: gli leverà la pelle di dosso. Non avranno più il coraggio di farsi vedere».
«Probabilmente non saranno neppure molti, in una città come questa».
«Beh», fece il barista, con voce strascicata, «Nella città vera e propria non ce ne sono molti. Ma c’è un posto, poco lontano di qui, più avanti, lungo il fiume. Un posto che si chiama Hamilton. È proprio pieno di para. È un paese nuovo, costruito dai para: sono arrivati da tutte le parti. C’è un nome speciale per un posto così… dovrei saperlo, ma adesso non me ne ricordo. Come il posto dove tenevano gli ebrei, in Europa».
«Ghetto».
Il barista batté la mano sul banco disgustato.
«Già! Chissà come mai non mi veniva in mente? Sissignore, è proprio la parola giusta. Ghetto. Ma anticamente era una parte povera di una città e adesso invece è in campagna, nella parte più povera della campagna. Quella terra, laggiù, lungo il fiume, non è gran cosa. Non è il posto adatto per costruirci un paese. Ma ai para piace stare là. Finché non danno fastidio a nessuno, nessuno dà fastidio a loro. Finché stanno al loro posto, li lasciano in pace. E sappiamo dove sono, e loro sanno che noi lo sappiamo. Se cominciasse a scoppiare qualche guaio, sapremo dove andare a cercare».
Diede un occhiata all’orologio a muro.
«Se volete bere ancora qualcosa», disse, «avete il tempo di farlo».
«No, grazie», disse Blaine. Posò due banconote sul banco. «Tenga pure il resto», disse.
«Oh, grazie, signore. Mille grazie».
Poi, mentre scendevano dagli sgabelli, aggiunse: «Se fossi al vostro posto, cercherei di mettermi in fretta al coperto. I poliziotti vi salteranno addosso, se vi trovano in giro».
«Ci metteremo al coperto», disse Harriet. «E grazie per la conversazione».
«È stato un piacere», disse il barista. «Un vero piacere».
Uscirono, e Blaine aprì la portiera per far salire Harriet, poi girò attorno alla macchina e salì a sua volta.
«Il deposito sull’autostrada?» chiese.
«Shep, che cosa hai intenzione di fare? Riusciremmo soltanto a metterci nei guai».
«Troverò un modo per sistemare tutto. Non possiamo assolutamente lasciare quella macchina, Perché Finn possa predicarci sopra a modo suo».
«Quindi, immagino, tu pensi di portarla via».
«No, non so se ce la farei. È troppo grossa e ingombrante. Ma deve esserci un sistema… Dobbiamo giocare un tiro a Finn. Dobbiamo riuscirci, in qualche modo».
«Ci saranno uomini di guardia».
«Non credo proprio, Harriet. Catenacci e lucchetti, sì, ma niente guardie. Non troverebbero nessuno disposto a montare di sentinella. Questa città è spaventata a morte».
«Sei proprio uguale a Godfrey». disse Harriet. «Tutti e due pronti a rischiare il collo».«Avevi molta stima di Godfrey».
«Sì, molta» disse lei.
Blaine avviò il motore, guidò la macchina in mezzo alla strada.
Il vecchio deposito dell’autostrada era nero e silenzioso, e in giro non si vedeva nessuno. Gli passarono davanti due volte per studiarlo bene, lentamente, ed entrambe le volte la scena era la stessa: c’era solo il grande deposito, una reliquia dei tempi in cui bisognava provvedere alla manutenzione delle autostrade per conservarle in efficienza, quando c’era bisogno di macchine d’ogni genere per mantenere in ordine il piano stradale.
Blaine fermò la macchina piuttosto lontano dalla strada, in un boschetto di salici: la lasciò abbassare, poi spense i fari.
Il silenzio si chiuse intorno a loro, e l’oscurità pulsava di quel silenzio.
«Harriet», disse Blaine.
«Si, Shep?»
«Tu resta qui. Non ti muovere. Io vado».
«Ci metterai molto? Non potrai far niente, temo».
«Non ci metterò molto», disse lui. «Hai una lampada tascabile?»
«Ce n’è una nel cassetto del cruscotto».
La sentì frugare, nell’oscurità. La serratura dello sportello del cassetto scattò, e la minuscola lampadina che stava nell’interno si accese. La torcia elettrica stava in mezzo a un mucchio di carte topografiche, di occhiali da sole e di altri oggetti.
Harriet gliela porse. Lui premette il pulsante, per provarla. Funzionava. Tornò a spegnerla, e scese dalla macchina.
«Stai tranquilla», le disse.
«E tu», disse Harriet, «stai attento».
XXIII
Il deposito era più grande di quanto gli era sembrato quando l’aveva studiato dall’autostrada. Era circondato da una fitta coltre di erba alta, morta e secca, che frusciava con un suono furtivo al minimo movimento dell’aria. Era stato costruito con i grandi pezzi di lamiera ondulata che venivano usati per quel genere di edifici prima che, una quarantina d’anni fa, venisse introdotta la stuccoplastica di Aldebaran VII. La superficie regolare del metallo era interrotta da poche finestre, cariche di sporcizia e di vecchie ragnatele. Due grandi porte che si alzavano a bilanciere occupavano quasi completamente l’ampiezza della facciata.
Ad est si stendeva la sagoma buia della città, profilata contro un debole arrossamento del cielo che annunciava l’imminenza del sorgere della luna.
Cautamente, Blaine girò attorno alla costruzione, cercando di scoprire da che parte poteva penetrarvi. Non trovò niente. Le due grandi porte erano chiuse a chiave. Verso il basso, un paio di lastre metalliche si erano allentate, ma erano troppo pesanti perché fosse possibile storcerle e rialzarle, in modo da creare un passaggio.
C’era un unico modo, per entrare.
Si diresse verso l’angolo della costruzione più vicino all’autostrada e si fermò, in ascolto. A parte il fruscio aspro dell’erbaccia, non si sentiva nulla. L’autostrada era completamente deserta, e molto probabilmente sarebbe rimasta deserta. Non si scorgevano luci di alcun genere: né lampade, né raggi che filtrassero da qualche finestra lontana. Era come se lui e il deposito si trovassero in un mondo completamente privo di vita.
Fissò lo sguardo, per un po’ di tempo, sul boschetto di salici sul ciglio della strada: ma non vi erano scintillii o bagliori che indicassero la presenza di una macchina nascosta.
Si incamminò, rapidamente, e costeggiò la parete di metallo, fino a quando arrivò ad una finestra. Si tolse la giacca sbrindellata, se l’avvolse attorno al pugno e all’avambraccio.
Poi sferrò un colpo, ed i vetri della finestra si spezzarono. Sferrò altri colpi, per rimuovere i pezzi di vetro che erano rimasti infissi all’intelaiatura. Poi tolse ad una ad una le ultime scheggie che avrebbero potuto ferirlo.
Ritornò all’angolo e si fermò di nuovo ad ascoltare, per qualche istante. La notte era ancora immobile e silenziosa.
Raggiunse di nuovo la finestra, ed entrò nel deposito. Si calò con prudenza, e sentì il pavimento sotto i piedi. Si tolse dalla tasca la torcia elettrica, l’accese. Fece scorrere il cono di luce nella caverna vuota che era l’interno del deposito.
E lì, accanto alla porta, c’era il camion fracassato che aveva trovato finalmente riposo, e la lucente macchina delle stelle che aveva trasportato.
Cercando di non fare rumore, Blaine attraversò il deposito e si fermò accanto alla macchina, illuminandola con il raggio di luce. Era qualcosa che lui conosceva bene, era qualcosa che aveva conosciuto intimamente, all’Amo. Aveva una strana bellezza, si disse mentre la guardava, come se fosse possibile scorgere, riflesse nella sua superficie, le distese lontanissime dell’universo che l’uomo poteva raggiungere con il suo aiuto.