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Arthur C. Clarke

Polvere di Luna

Titolo originale: A Fall of Moondust

Traduzione di Hilja Brinis

© 1961 Harcourt Brace

Urania n. 281 (6 maggio 1962)

Essere il capitano dell’unico battello della Luna era un onore di cui Pat Harris andava molto orgoglioso. Mentre i passeggeri salivano a bordo, tentando di accaparrarsi i posti accanto ai finestrini, Pat si domandava come sarebbe andato stavolta il viaggio. Nello specchio retrovisivo vedeva la signorina Wilkins, molto elegante nell’uniforme azzurra della Commissione per il Turismo Lunare, intenta a svolgere le sue mansioni di hostess. Cercava sempre di pensare a lei come alla «signorina Wilkins», e questo lo aiutava a non distrarsi dal suo lavoro. Ma, in realtà, gli sarebbe piaciuto sapere che opinione Sue avesse di lui.

Non c’era nessuna faccia nota; i passeggeri erano tutti novellini, ansiosi di intraprendere la loro prima crociera lunare. Per la maggior parte erano turisti tipici: persone anziane, venute a visitare un mondo che durante la loro gioventù rappresentava ancora il simbolo dell’inaccessibilità. Solo quattro o cinque erano sotto la trentina; probabilmente facevano parte del personale tecnico di una delle basi lunari, e al momento erano in vacanza. Pat aveva notato che in genere le persone più anziane venivano dalla Terra, mentre le più giovani avevano la residenza lunare.

Per tutti, comunque, il Mare della Sete era una novità. Oltre i finestrini panoramici del Selene, la sua grigia, polverosa superficie si stendeva ininterrotta fino a raggiungere le stelle. In alto, pendeva la falce calante della Terra, sospesa in eterno nel cielo. La vivida luce verdeazzurra del pianeta inondava lo strano paesaggio di un chiarore gelido; sulla superficie esposta, la temperatura era di centocinquanta gradi sotto zero.

A prima vista, nessuno avrebbe saputo dire se il Mare della Sete fosse solido o liquido. Era completamente piatto e uniforme, senza le innumerevoli crepe e fessure che si aprivano in ogni altra parte di quel mondo sterile.

Non un isolotto, uno scoglio o un sasso interrompevano quella monotona distesa. Nessun mare della Terra, e nemmeno un semplice stagno, aveva mai conosciuto un’immobilità così assoluta.

Era un mare di polvere, non d’acqua, e quindi esulava da tutte le esperienze degli uomini; proprio per questo li attirava e li affascinava. Quella polvere fine come talco, più asciutta delle sabbie riarse del Sahara, fluiva senza sforzo, con la stessa facilità di un liquido. Un oggetto pesante lasciato cadere sulla sua superficie sarebbe scomparso istantaneamente senza uno spruzzo, senza lasciare la minima traccia. Nulla poteva muoversi sopra quella insidiosa distesa, salvo le slitte da polvere biposto, e il Selene, una bizzarra combinazione di trattore e di autobus non dissimile dal «Gatto delle nevi» usato nell’Antartico mezzo secolo prima.

La designazione ufficiale del Selene era: imbarcazione da polvere, Modello I (sebbene, per quanto ne sapeva Pat, il Modello II non esistesse nemmeno in fase di progettazione). Era chiamata «nave», «battello» o «lunabus», secondo i gusti. Pat preferiva «battello», per evitare confusioni. Se usava la definizione battello, non rischiava di essere scambiato per un comandante di navi spaziali… e i capitani di navi spaziali, si sa, era gente comunissima.

«Benvenuti a bordo del Selene» disse la signorina Wilkins, quando tutti i passeggeri ebbero preso posto. «Il capitano Harris e io siamo lieti di avervi con noi. Il viaggio durerà quattro ore, e la prima tappa sarà Crater Lake, cento chilometri a est di qui, nelle Montagne Inaccessibili.»

Pat non prestava orecchio al consueto discorsetto di circostanza: era troppo occupato nei preparativi. In pratica, il Selene era una nave spaziale di terra; né poteva essere altrimenti, dato che viaggiava nel vuoto e doveva quindi proteggere il suo carico vivente dal mondo ostile che stava oltre lo scafo. Sebbene non lasciasse mai la superficie della Luna, e fosse azionata da motori elettrici invece che da razzi, era dotata di tutto l’equipaggiamento base di una regolare astronave, e ogni cosa andava controllata prima della partenza.

Ossigeno… a posto. Corrente… a posto. Radio… a posto («Pronto, Base Arcobaleno, qui Selene. Mi sentite?») Campo d’inerzia… a zero. Compartimento stagno… chiuso. Rivelatore di falle… a posto. Luci interne… a posto. Passerella… sganciata. E così via per più di cinquanta voci, per ognuna delle quali, in caso di guasto, si sarebbe accesa automaticamente una spia. Ma Pat Harris non si fidava mai dei segnali automatici, e potendo preferiva controllare di persona.

Finalmente era pronto. I motori, molto silenziosi, cominciarono a girare, ma le eliche non pescavano ancora e il Selene vibrava appena agli ormeggi. Poi Pat abbassò la leva di destra, aumentò il numero dei giri e il battello cominciò a virare lentamente. Appena il Selene si fu allontanato dall’imbarco, Pat lo raddrizzò e aumentò la velocità.

Il battello era molto maneggevole, specie se si considerava l’assoluta novità delle sue strutture. Non c’erano stati, qui, millenni di tentativi, errori e perfezionamenti, non occorreva risalire al primo uomo che aveva affidato un tronco alla corrente. Il Selene era la prima imbarcazione del suo tipo, ed era stata creata da zero da alcuni ingegneri che si erano seduti a tavolino e si erano posti la domanda: «Come dev’essere fatto un veicolo che possa galleggiare sopra un mare di polvere?»

La scelta dei mezzi di propulsione era caduta sulle eliche sommerse. Montate a poppa, perforavano la massa polverosa spingendo innanzi lo scafo, e lasciavano una scia che assomigliava a quella di una velocissima talpa; la scia, però, svaniva nel giro di pochi secondi, e sul Mare della Sete non restava traccia del passaggio dell’imbarcazione.

Ora le tozze cupole pressurizzate di Porto Roris già scendevano rapidamente sotto la linea dell’orizzonte. Dieci minuti dopo erano completamente scomparse: il Selene si trovava nella solitudine più assoluta, al centro di qualcosa per cui i molti linguaggi dell’umanità non hanno un termine adatto.

Pat spense i motori, poi aspettò, mentre l’imbarcazione si arrestava, che intorno a lui si stabilisse il silenzio. Accadeva sempre così; passava qualche istante prima che i passeggeri si rendessero conto della stranezza di ciò che si stendeva all’esterno del battello. Quella gente aveva attraversato lo spazio e aveva visto le stelle attorno a sé; aveva guardato all’insù, o all’ingiù, verso la faccia abbagliante della Terra, ma lì era molto diverso. Non era né terra né mare, né aria né spazio, ma un po’ di tutte queste cose.

Prima che il silenzio si facesse opprimente, Pat si alzò e si rivolse ai suoi passeggeri.

«Buona sera, signore e signori» esordì. «Spero che la signorina Wilkins sia riuscita a mettervi a vostro agio. Ci siamo fermati qui perché è un buon punto per farvi fare la conoscenza di questo Mare, per darvi modo, diciamo così, di coglierne l’atmosfera.» Indicò il grigiore spettrale che si stendeva oltre i finestrini. «A quale distanza immaginate che si trovi il nostro orizzonte?» chiese. «Vi farò la domanda in un altro modo: quanto grande vi apparirebbe un uomo, se stesse in piedi laggiù, dove pare che le stelle tocchino il suolo?»

Non era una domanda alla quale si potesse rispondere basandosi solo sulla propria vista. La logica diceva: «La Luna è un piccolo mondo… l’orizzonte deve essere molto vicino». Ma i sensi davano un verdetto totalmente diverso: questa terra, suggerivano, è assolutamente piatta, e si stende all’infinito. Divide l’universo in due, e continua così sotto le stelle, senza interruzione.

L’illusione restava, anche quando se ne conosceva la causa. L’occhio non ha modo di giudicare le distanze, quando non ha nulla su cui fissarsi, come appunto avveniva in quel liscio oceano di polvere. Non c’era nemmeno, come invece c’è sulla Terra, la foschia dell’atmosfera ad ammorbidire i contorni, dando qualche indicazione di vicinanza o di distanza. Le stelle erano punti luminosi di luce ferma, che scendevano fino al limite di quell’orizzonte indeterminato.