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Staccò il dito dal pulsante. D’un tratto parve invecchiato. Il primo contatto dell’umanità con una razza aliena era un’eventualità che era stata ipotizzata in molti modi diversi, ma mai in una situazione angosciosa come quella. Una solitaria nave terrestre e una nave aliena altrettanto solitaria che s’incontravano in una nebulosa senz’altro lontanissima dai pianeti d’origine di entrambe. Potevano far mostra di desiderare la pace, ma la miglior linea da seguire, se si aveva intenzione di attaccare a tradimento, era proprio quella di fingersi amichevoli. Il non mostrarsi sospettosi poteva segnare la condanna della specie umana… e d’altra parte un pacifico scambio dei frutti delle rispettive civiltà avrebbe costituito il più grande beneficio immaginabile. Qualunque errore sarebbe stato irreparabile, ma il non stare sul chi vive avrebbe potuto avere conseguenze fatali. La cabina di comando era molto, troppo tranquilla. La visipiastra a prua mostrava ormai una sezione assai piccola della nebulosa. Era tutta nebbia diffusa, amorfa, luminescente. Ma d’un tratto Tommy. Dort puntò il dito:

«Là, signore!»

C’era una piccola forma nella nebulosità. Era molto lontana. Appariva nera e opaca, non lucidata a speccho com’era invece la superficie esterna della Llanvabon. Era bulbosa, quasi una forma a pera. La luminosità, per quanto rarefatta, che si stendeva in mezzo a loro, impediva di riconoscere i particolari, ma non era certo un oggetto naturale. Poi, Tommy diede un’occhiata all’indicatore di distanza e annunciò con calma: «Sta puntando verso di noi ad altissima accelerazione, signore. Ci sono buone probabilità che stiano pensando la stessa cosa… che nessuno di noi due oserà consentire all’altro di seguirlo fino a casa. Pensa che tenteranno un contatto con noi, oppure che si scateneranno con le loro armi non appena si troveranno a portata di tiro?»

La Llanvabon non si trovava più nella «fossa», in quell’abisso di vuoto assoluto che sprofondava nel cuore della nebulosa. Adesso nuotava nella luminescenza. E non si vedeva più nessuna stella, salvo i due ardenti bagliori del sistema doppio nel cuore della nebulosa. Tutt’intorno allo scafo non c’era altro, se non quella luminosità che tutto permeava, creando una sensazione simile a quella che si sarebbe provata dentro un acquario tropicale sulla Terra.

La nave aliena se non altro non diede segno di voler scatenare subito le ostilità. Quando fu più vicina alla Llanvabon, decelerò. La stessa Llanvabon, dopo esserle andata incontro, si era fermata del tutto. La sua decelerazione era stata un ovvio riconoscimento della vicinanza dell’altra nave. Il suo fermarsi era allo stesso tempo un segno amichevole e una precauzione nei confronti di un possibile attacco. Relativamente immobile lì nello spazio, poteva sempre, però, ruotare su se stessa così da fornire il bersaglio minore allo scatenarsi d’un attacco in forze, e avrebbe avuto un più lungo intervallo utile di sparo se l’altra nave le fosse guizzata lungo il fianco.

La tensione salì al massimo al momento dell’approccio vero e proprio. La prua aghiforme della Llanvabon era puntata con ferma decisione contro lo scafo alieno. Un contatto azionabile nella cabina di comando consentiva al capitano di scatenare in una minima frazione di secondo l’intera potenza dei fulminatori. Tommy Dort stava osservando, corrugando la fronte. Gli alieni dovevano possedere un alto grado di civiltà se disponevano di navi spaziali, e le civiltà non si sviluppano se non si accompagnano a un alto grado di prudenza. Quegli alieni dovevano ben conoscere tutte le implicazioni di quel primo contatto fra due specie civilizzate, all’identico modo in cui le conoscevano gli umani dentro la Llanvabon.

Le prospettive d’una lussureggiante fioritura di entrambe le civiltà grazie a un contatto pacifico e a liberi scambi delle rispettive tecnologie avrebbe dovuto far piacere a loro come all’uomo. Ma, sulla Terra, quando due differenti culture umane venivano a contatto, una finiva sempre in posizione subordinata all’altra… e in caso contrario, si scatenava la guerra. C’erano quindi due possibilità. Ma una condizione subordinata fra razze sorte su diversi pianeti non avrebbe certo potuto stabilirsi in via pacifica. Gli umani, per lo meno, non avrebbero mai acconsentito a trovarsi subordinati, né era probabile che una qualunque altra specie altamente sviluppata l’avrebbe accettato. I benefici derivanti dal commercio e dallo scambio d’informazioni non avrebbero mai compensato una condizione d’inferiorità. Alcune razze — gli uomini… forse — avrebbero preferito il commercio alla conquista. Forse — forse! — anche questi alieni. Ma c’era sempre qualcuno, anche tra gli umani, che avrebbe bramato una guerra sanguinosa. Se quella nave aliena, che adesso si stava avvicinando alla Llanvabon, fosse tornata al pianeta d’origine con la notizia dell’esistenza dell’umanità e di navi come la Llanvabon, appunto, avrebbe dato alla sua specie la scelta fra commerciare o combattere. Avrebbero preferito il commercio… o la guerra? Non potevano esser sicuri delle intenzioni degli uomini, né gli uomini potevano esser sicuri delle loro. L’unica certezza assoluta, per gli uni come per gli altri, sarebbe stata offerta dalla completa distruzione di una o di entrambe le navi, qui e subito.

Ma neppure la vittoria totale sarebbe stata sufficiente. Perché, ora, gli uomini si trovavano nella necessità di sapere da dove veniva quella specie aliena, per evitarla, se non per combatterla. Dovevano conoscere le sue armi, e ogni altra risorsa, se quella specie aliena poteva essere una minaccia, e come poterla eliminare in caso di necessità. E gli alieni avrebbero avvertito le identiche necessità nei confronti degli uomini.

Così, il comandante della Llanvabon non schiacciò il tasto che avrebbe potuto ridurre a niente l’altra nave. Non osò farlo. Ma non osava neppure non sparare. Il sudore cominciò a imperlargli la fronte.

Un altoparlante bofonchiò. Qualcuno dalla centrale di tiro.

«L’altra nave si è fermata, signore. È in condizione stazionaria. Le teniamo i fulminatori centrati addosso, signore».

Era un invito a sparare. Ma il comandante scosse la testa, rivolto a se stesso. La nave aliena era a non più di venti miglia di distanza. Era nera come la notte. Ogni più piccola porzione del suo scafo era d’un profondo nero opaco. Non si distingueva nessun particolare, salvo qualche variazione del suo profilo sullo sfondo della nebulosa.

«Si è arrestata del tutto, signore», disse un’altra voce. «Hanno trasmesso un’onda corta modulata, signore. Modulazione di frequenza. Sembra un segnale. Non ha abbastanza energia per essere dannoso».

Il comandante disse, a denti stretti: «Finalmente fanno qualcosa… C’è del movimento all’esterno del loro scafo. Tenete sotto osservazione quello che sta uscendo. Puntateci sopra i fulminatori ausiliari».

Qualcosa di piccolo e rotondo scivolò fuori dalla sagoma ovoidale della nave nera. La nave si mosse.

«Si stanno allontanando, signore», annunciò l’altoparlante. «L’oggetto che hanno mandato fuori è stazionario nel punto in cui l’hanno lasciato».

Un’altra voce intervenne: «Un altro fascio d’onde a modulazione di frequenza, signore. Inintelligibile».

Gli occhi di Tommy Dort s’illuminarono. Il comandante scrutò la visipiastra con la fronte imperlata di sudore.

«Piuttosto ben fatto, signore», commentò Tommy. «Se avessero mandato qualcosa verso di noi, avremmo sempre potuto interpretarlo come un proiettile, qualcosa di esplosivo. Così, si sono avvicinati, hanno fatto uscire una scialuppa, laggiù, e si sono nuovamente allontanati. Hanno immaginato che anche noi possiamo mandar fuori una scialuppa con un uomo, e stabilire un contatto senza rischiare l’intera nave. Devono pensare in un modo assai simile al nostro».