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C’era un congegno per la registrazione dei pacchetti d’onde corte che veniva usato correntemente tra gli alieni, così come gli uomini usavano i registratori di suoni. Gli umani bramavano averlo a tutti i costi. E allo stesso modo gli alieni erano affascinati dai misteri del suono. Naturalmente, gli alieni erano, si, in grado di percepire i suoni, ma allo stesso modo in cui il palmo della mano di un uomo percepisce la luce infrarossa attraverso la sensazione del calore, ma non riuscivano a distinguere l’altezza di un suono, o il timbro, più di quanto un uomo sia capace di distinguere fra due frequenze di radiazione termica, anche se separata da una mezza ottava. Per quegli alieni, la scienza umana dei suoni era una straordinaria scoperta. Avrebbero trovato usi, per i rumori, che gli umani non si sarebbero mai sognati… se fossero sopravvissuti.

Ma quello era un problema secondario. Nessuna delle due navi poteva partire se prima non avesse distrutto l’altra. Ma, mentre il flusso delle informazioni continuava, nessuna delle due navi poteva permettersi di distruggere l’altra. C’era altresì la faccenda del colore esterno delle due navi. La Llanvabon risplendeva, all’esterno, come uno specchio; la nave aliena era d’un nero tenebroso alla luce visibile. Assorbiva perfettamente il calore, e avrebbe dovuto irradiarlo con altrettanta prontezza. Ma non era così. Quel rivestimento nero non la rendeva equivalente a un «corpo nero», non era, cioè, una mancanza assoluta di «colore». In realtà, era una perfetta superficie riflettente per certe lunghezze d’onda infrarosse; altre, a una frequenza più alta, le assorbiva, convertendone una parte a una frequenza più bassa, di frequenza uguale alle radiazioni riflesse. Grazie a questa sorta di «fluorescenza» nell’infrarosso, la nave aliena si garantiva un perfetto equilibrio termico e manteneva costante la temperatura interna anche lì, nel vuoto.

Tommy Dort stava duramente sgobbando alla sezione comunicazioni. Non trovava i processi mentali degli alieni talmente alieni da non riuscire a seguirli. Le discussioni tecniche, ora, avevano raggiunto lo stadio della navigazione interstellare. Per illustrare le rispettive tecniche era necessaria una mappa stellare. Naturalmente, non era certo il caso di procurarsi una mappa presa dalla sala delle carte della Llanvabon, poiché gli alieni, studiandola, avrebbero potuto senz’altro scoprire il punto dal quale la mappa era stata proiettata. Tommy, perciò, si era confezionato una mappa nuova di zecca con immagini stellari immaginarie ma convincenti riprodotte su di essa. Trasmise, quindi, le istruzioni per l’interpretazione attraverso la codificatrice. In cambio, gli alieni presentarono una propria mappa stellare alla visipiastra del robot sferico. Copiatala all’istante a mezzo fotografia, gli ufficiali della Llanvabon si misero subito a lavorarci sopra, cercando di calcolare da quale punto della Galassia le costellazioni sarebbero apparse in quel modo. La mappa li lasciò assai perplessi.

Fu Tommy che finì per rendersi conto che anche gli alieni avevano realizzato una mappa stellare posticcia per quella dimostrazione… un’immagine speculare della finta mappa che lui stesso aveva propinato loro poco prima.

A questa constatazione, Tommy sogghignò. Quegli alieni cominciavano a piacergli. Non erano umani. Ma avevano un senso molto umano dell’umorismo. A un certo punto, Tommy tentò una battuta di spirito. Dovette venir tradotta in codice, e poi trasformata in una successione di pacchetti d’onde corte, a modulazione di frequenza, questi pacchetti furono trasmessi all’altra nave, e qui Dio soltanto sapeva attraverso quali altri congegni si trovarono costretti a passare per diventare intelligibili. Non sembrava proprio che una battuta di spirito, costretta a passare attraverso tante formalità, avesse molte possibilità di sembrar divertente ai destinatari. Ma gli alieni riuscirono ugualmente a capirla.

Per uno di quegli alieni l’uso del trasmettitore divenne una funzione normale almeno quanto era diventato per Tommy l’uso della codificatrice. Tra l’umano e il suo equivalente alieno si sviluppò ben presto una paradossale amicizia che ambedue svilupparono conversando tra loro tramite codificatrice, decodificatore e pacchetti d’onde corte a modulazione di frequenza. Quando le questioni tecniche nei rispettivi messaggi cominciarono a farsi troppo impegnative, quell’alieno a volte ci buttava dentro delle sue personali interpretazioni in una sorta di slang… e molto spesso era proprio quest’intercalare alla buona che chiariva i punti di maggior confusione. Tommy, per nessun particolare motivo, aveva registrato in codice il nome «Daino», che il decodificatore ora sceglieva ogni volta che quel particolare alieno firmava un messaggio col proprio simbolo.

Durante la terza settimana di comunicazioni, il decodificatore esibì all’improvviso a Tommy, nell’apposito riquadro, il messaggio:

Sei un bravo tipo. Peccato che dobbiamo ucciderci — DAINO.

Tommy, che aveva pensato la stessa cosa, batté la sua amara risposta:

Non riusciamo a vedere una via d’uscita. E voi?

Vi fu una pausa, poi si formò un altro messaggio:

Se potessimo fidarci l’uno dell’altro, si. Al nostro comandante piacerebbe. Ma non possiamo fidarci di voi, e voi non potete fidarvi di noi. Ma ci dispiace — DAINO.

Tommy Dort portò i messaggi al comandante.

«Guardi qua, signore!» disse, affannato. «Questa gente è quasi umana. Sono dei tipi simpatici».

Il comandante era impegnato nel suo importante compito di pensare alle cose di cui preoccuparsi, e se ne preoccupava. Replicò, stancamente:

«Respirano ossigeno. La loro aria ha il ventotto per cento di ossigeno, ma potrebbero cavarsela molto bene anche sulla Terra. Per loro il nostro pianeta sarebbe una preziosa conquista. E non sappiamo ancora quali armi abbiano, né di che cosa sono capaci. Lei gl’insegnerebbe la strada per la Terra?»

«È probabile che loro la pensino allo stesso modo», aggiunse il comandante, asciutto. «E se anche riuscissimo a stabilire un contatto amichevole, per quanto tempo resterebbe amichevole? Se le loro armi fossero inferiori alle nostre, penserebbero di doverle migliorare per la loro stessa sicurezza. E noi, sospettando la loro intenzione di ribellarsi, li schiacceremmo non appena ci fosse possibile… per motivi di sicurezza! E se fossero le nostre armi ad essere inferiori, sarebbero loro a doverci liquidare prima che potessimo metterci alla pari!»

Tommy non aveva replicato, ma si agitava inquieto.

«Se distruggessimo questa nave aliena e ce ne tornassimo a casa», disse ancora il comandante, «il governo della Terra ci farebbe oggetto del suo biasimo se non sapessimo dirgli da dove provenivano. Ma cosa possiamo fare? Potremo chiamarci fortunati se riusciremo a ritornare vivi, con l’annuncio di questa civiltà aliena. Non è possibile estrarre da queste creature più informazioni di quante noi stessi gliene diamo, e certo noi non gli daremo il nostro indirizzo! Ci siamo imbattutti in loro per caso. Forse, se distruggessimo questa nave, non ci sarà un altro contatto per altri mille anni. E sarebbe un peccato, perché tutti gli scambi possibili con loro potrebbero significare tanto!

«Ma bisogna essere in due per fare la pace, e noi non possiamo rischiare di fidarci di loro. L’unica risposta è ucciderli, se possiamo, e se non possiamo, accertarci che quando ci uccideranno, non scoprano niente che possa condurli fino alla Terra. Non mi piace», concluse il comandante, desolato, «ma, semplicemente, non c’è nient’altro da fare!»