Underhill unì le mani sopra la testa e si sfregò gli occhi superiori. — Non hai mai pensato che forse qualcun altro è responsabile dei nostri problemi?
— Dannazione, Sherk. Qualcun altro chi?
Underhill si mise più comodo sul trespolo, e abbassò la voce. — Sto parlando degli alieni venuti dallo spazio esterno. Loro sono qui, fin da prima del Nuovo Sole. Tu e io li abbiamo visti durante la Tenebra, Hrunk. Le luci nel cielo, ricordi?
Aveva la voce rauca e un tono molto diverso dallo Sherkaner di quegli anni lontani. A quel tempo buttava lì le sue speculazioni con sorridente impudenza, quasi per sfida, Ora parlava in fretta, come se fosse ansioso di esprimersi prima che lui potesse contraddirlo o farlo tacere. Questo Underhill parlava come… un disperato, capace solo di aggrapparsi alle sue fantasie.
Il vecchio artropode si accorse di aver perduto il suo pubblico. — Tu non mi credi, Hrunk. È così?
Lui si appoggiò indietro, sul trespolo. Quanto denaro era già stato gettato via in quelle orride sciocchezze? Alieni che li spiavano… esseri venuti da altri mondi… questo era il più grottesco sviluppo delle vecchie idee di Underhill sullo spazio cosmico. E ora che non aveva altro da fare il povero vecchio si baloccava con questo. Hrunkner conosceva il generale; la sua reazione non doveva essere stata diversa. Il mondo era sull’orlo della guerra nucleare, di una catastrofe senza precedenti, e non c’era posto per chi si scostava dalla realtà. Sicuramente il generale non aveva permesso al marito di distrarla con le sue fantasie. — È come la videomanzia, eh, Sherk? — In vita tua hai fatto non pochi miracoli per noi, ma ora te ne serve uno più disperatamente che mai, e tutto ciò che ti resta è la superstizione.
— No, no, Hrunk. Gli studi sulla videomanzia erano una copertura, solo un espediente perché gli alieni non potessero vedere. Aspetta, ora ti mostro una cosa! — Le mani di Underhill sfiorarono i fori dei comandi. L’immagine palpitò, i colori cambiarono, il panorama verde si trasformò in una bianca veduta invernale. — Occorre qualche momento. Questo computer ha poca memoria, purtroppo, ma una grossa capacità di elaborazione dati. — Controllò qualcosa su due piccoli display che Hrunkner non poteva vedere bene. — Tu meriti di essere informato su questa cosa più di ogni altro, Hrunk. Hai già fatto molto per noi, e potresti fare ancor di più se partecipassi. Devo dire che il generale purtroppo non è molto…
Sullo schermo i colori continuavano a cambiare. La risoluzione dell’immagine era molto scadente. Trascorsero alcuni lenti secondi.
A un tratto Underhill mandò un’esclamazione di disappunto.
Qualcuno s’era inserito in rete con una chiamata video. Ciò che apparve fu un’inquadratura a otto colori dell’ufficio di Victreia Smait a Comando Territoriale. Non era una buona immagine paragonata a quella dell’occhio di un aracnide, ma pur sempre migliore dei bislacchi colori della videomanzia di Underhill.
E inoltre questa era un’immagine reale: il generale Smait li guardava, seduta dietro la sua scrivania. Davanti a lei erano ammucchiati fascicoli e documenti. Accennò a un aiutante di uscire dal suo ufficio e appena fu sola accese anche l’audio.
— Sherkaner, vedo che hai approfittato della visita di Unnerbai in città per invitarlo nel tuo ufficio. — Il tono di lei era irritato.
— Sì, pensavo di…
— Credevo che ne avessimo già discusso, Sherkaner. Tu puoi giocare coi tuoi giocattoli finché vuoi, ma non devi far perdere tempo a gente che ha del vero lavoro da fare.
Hrunkner non aveva mai sentito il generale usare un tono così duro e sarcastico con suo marito. Forse era giustificato, ma in ogni caso lui avrebbe preferito non essere presente alla scena.
Underhill parve sul punto di protestare. Si agitò sul trespolo, alzò una mano come in gesto di scusa e infine disse: — Sì, mia cara.
Il generale Smait annuì, quindi salutò Hrunkner con un cenno. — Scusami per questo inconveniente, sergente. Se hai bisogno di aiuto per rimetterti in pari col tuo programma di lavoro…
— Grazie, signora. Potrei averne bisogno, sì. Parlerò con l’aeroporto, poi la richiamerò.
— Bene. — L’immagine da Comando Territoriale scomparve.
Underhill aveva abbassato la testa a contatto della consolle. Era immobile, con le braccia e le gambe girate verso l’interno. L’insetto-guida lo toccò con fare interrogativo.
Hrunkner si mosse verso l’amico. — Sherk… — disse sottovoce. –Ti senti bene?
Dopo qualche momento l’altro rialzò la testa. — Sì, sto bene. Scusa, Hrunk.
— Io… uh, ora devo andarmene, Sherk. Ho una riunione. — Questo non era del tutto vero. Alla riunione aveva già rinunciato per venire lì. Ma c’erano altre cose non meno importanti da fare. Con l’aiuto di Victreia Smait avrebbe potuto lasciare Principalia con un certo anticipo, comunque.
Underhill scese goffamente dal trespolo e lasciò che Mobiy se lo tirasse dietro verso la massiccia porta. Sulla soglia allungò una mano e si aggrappò a una manica di Hrunkner. Sta perdendo l’equilibrio? Che gli succede?
— Non rinunciare mai, Hrunk. C’è sempre il modo di farcela, proprio come in passato. Vedrai.
Hrunkner annuì, mormorò un saluto e si allontanò in corridoio verso l’ascensore, mentre Underhill lo osservava dalla porta del suo ufficio. Un tempo sarebbe sceso con lui fino al pianterreno, ma ora sembrava aver capito che qualcosa era cambiato fra loro. E tuttavia, intanto che la porta dell’ascensore si chiudeva, Hrunkner vide che l’amico gli rivolgeva un timido gesto di saluto.
Questo gli fece male. Durante la veloce discesa della cabina in lui dilagarono la rabbia e la tristezza. Strano come le due emozioni potessero mescolarsi. Come Sherkaner Underhill, anche lui aveva disperatamente desiderato che certe cose fossero vere, al punto da non accorgersi subito dei sintomi che provavano il contrario. Ma a differenza di lui, Hrunkner non poteva ignorare la dura realtà della loro situazione. E così quell’ultima crisi avrebbe dovuto essere superata senza Sherkaner Underhill.
Hrunkner si sforzò di scacciare l’amico dai suoi pensieri. Più tardi, forse, ci sarebbe stato il tempo di ripensare ai momenti belli e dimenticare quel pomeriggio. Per il momento… se avesse potuto ottenere un jet militare per andarsene da Principalia forse sarebbe giunto a Comando Territoriale in tempo per trovare i suoi vice direttori ancora là.
Al primo piano dell’edificio la cabina rallentò e si fermò. Lui aveva pensato che fosse l’ascensore privato di Underhill. Chi poteva averlo chiamato? La porta scivolò di lato.
— Salve, sergente Unnerbai. Posso scendere con lei?
Era una giovane tenente, vestita con l’uniforme da lavoro del quartier generale. Victreia Smait aveva avuto lo stesso aspetto, molti anni prima: snella, flessuosa e nello stesso tempo energica e precisa nei movimenti. Per un istante lui restò paralizzato da quell’apparizione.
La giovane aracnide entrò nell’ascensore, e lui ebbe a stento la presenza di spirito di farle posto, stupito. Poi l’atteggiamento militaresco della tenente si rilassò. — Zio Hrunkner, non mi riconosci? Sono Viki.
Naturalmente, era lei. Hrunkner rise, annuendo. — Viki! Santo cielo, sei cresciuta, piccola… cioè, immagino di non poterti più chiamare così, ormai.
Viki gli passò un paio di braccia sulle spalle, affettuosamente. — No, tu puoi farlo sempre. Non credo che il mio grado mi consenta di darti degli ordini. Papà mi ha detto che saresti venuto oggi. Lo hai visto?… Bene. Hai un momento per parlare con me?
L’ascensore si stava fermando nell’atrio. — Sicuro, io… uh, però sto andando di fretta. Vorrei essere a Comando Territoriale entro stasera. — Dopo quel che era successo di sopra, non sapeva proprio cos’avrebbe potuto dire a Viki.