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Con un sorriso, attraversò fischiettando il largo e confortevole scompartimento centrale, gaiamente illuminato e decorato con le armi di Crown e altri truci cimeli di battaglia, ed entrò nel corridoio che portava alla cabina di guida.

Sting sedeva alle redini, piegato in avanti. La gente del Cristallo Bianco, a cui apparteneva Sting, sembrava sempre pulsare e vibrare di energia; ma Sting pareva esausto, svuotato, mezzo morto per la stanchezza. Era un essere piccolo, vigoroso, stretto di spalle e di fianchi, con la pelle cerea e incolore, dalla consistenza cornea, butterata di piccoli nocchi pelosi. La muscolatura era lunga e piatta; il viso cavernoso, con il naso a becco e le guance minuscole, gli occhi scuri e maliziosi nascosti in profonde cavità osse. Leaf gli toccò una spalla. — Va tutto bene — gli disse. — Crown mi ha mandato a darti il cambio. — Sting annuì debolmente ma non si mosse. L’ometto tremava come una foglia. Leaf aveva sempre pensato che fosse indistruttibile, ma in quel frangente Sting sembrava anche più fragile di Shadow.

— Vieni — mormorò Leaf. — Ti riposerai per qualche ora, Shadow si prenderà cura di te.

Sting scrollò le spalle. Era chinato in avanti, lo sguardo puntato al finestrino curvo e trasparente, ora macchiato da schizzi di acqua mista a fango.

— Quei luridi ragni — disse con voce roca e stanca. — La schifosa pioggia. Il fango. Guarda i cavalli, Leaf. Stanno morendo di paura e anch’io. Moriremo tutti su questa strada, Leaf; se non a causa dei ragni, per la pioggia avvelenata, o se non per la pioggia allora a causa dei Denti, e se non sarà per causa loro, allora sarà di certo qualche altra cosa. Non c’è altra strada che questa, per noi, lo capisci? Questa è la strada, e noi siamo legati ad essa come inermi subrazziali, e su di essa moriremo.

— Noi moriremo quando verrà la nostra ora, come per tutte le cose, Sting, e non un attimo prima.

— La nostra ora sta arrivando. Troppo presto. Troppo presto. Sento vicini i fantasmi della morte.

— Sting!

— Mi sento perseguitato, su questo carro, Leaf.

Sting emise un bizzarro suono gutturale, come una specie di singhiozzo rauco. Leaf lo sollevò di peso, togliendolo dal sedile del guidatore e posandolo gentilmente nel corridoio. Era come se Sting fosse senza peso. Forse in quel momento era così. Sting aveva molte strane doti. — Avanti — disse Leaf, — riposati un po’, adesso che puoi.

— Come sei gentile, Leaf.

— E niente più discorsi di fantasmi.

— Sì — rispose Sting. Leaf lo vide lottare contro la paura, la disperazione, lo sfinimento. Sembrò illuminarsi per un attimo, sul punto di riprendere l’antica vitalità; poi il breve brillio si spense e, con un pallido sorriso ed un mormorio di ringraziamento, Sting andò a poppa.

Leaf si sistemò sul sedile del guidatore.

Guardando dal finestrino del carro (fatto di sottili e resistenti strisce di pelle arrotolata, disposte con cura e perfettamente trasparenti), si trovò di fronte ad una scena lugubre. Una pioggia scura come il sangue cadeva obliquamente, flagellando il terreno spugnoso e sollevando piccoli zampilli di fango. Un miasma bluastro si sollevava dal suolo in ondate di nebbia scura e fumigante, il cui odore acre già cominciava a pervadere il carro. Leaf sospirò e prese le redini. Fantasmi di morte, pensò. Ossessionato. Povero Sting, gli aveva dato di volta il cervello.

Eppure, eppure ripensando alle parole di Sting, Leaf si rese conto che anche lui aveva provato qualcosa di simile nei giorni precedenti: si era sentito teso, incalzato, ossessionato. Ossessionato. Come se presenze invisibili, irridenti, ostili, incombessero su di lui. Fantasmi? Era più probabile che si trattasse della tensione per tutto quello che aveva passato dal giorno del primo massacro dei Denti. Era sopravvissuto al crollo di una civiltà ricca e intricata, e ora si muoveva in un mondo strano, fatto di ceneri e alghe. Forse era ossessionato dal peso di un passato non ancora sepolto, dal ricordo di tutto quello che aveva perduto.

Forse era necessaria una formula esorcistica.

A voce alta e tranquilla disse: — Se qui ci sono dei fantasmi, voglio che mi ascoltino. Uscite da questa cabina. È un ordine. Io ho un lavoro da svolgere.

Rise. Prese in mano le redini e si preparò ad assumere il controllo delle pariglie di incubi.

La sensazione di una presenza invisibile era soverchiante. Qualcosa di intangibile e palpabile ad un tempo, lo teneva stretto in una morsa rischiosa. Si sentiva circondato e risucchiato. È la nebbia, si disse. Una nebbia scura, che premeva contro il finestrino, sigillando il carro in una sacca di vapore. O non era la nebbia? Leaf rimase assolutamente silenzioso e si guardò intorno ispezionando con attenzione la cabina. Non c’era nessuno. Era assurdo agitarsi in quel modo. Eppure il disagio persisteva. Ora non era più uno scherzo. L’ansia di Sting l’aveva contagiato e ormai si nutriva di se stessa, facendosi più intensa ad ogni istante che passava, rendendolo vulnerabile a qualunque sussurro di terrore. Solo con la tranquillità mentale poteva ottenere lo stato di trance necessario ad un guidatore di incubi: e non sarebbe entrato in trance se avesse continuato a sentire lo sguardo di un osservatore invisibile. Questa pioggia, pensò. Questa maledetta pioggia. Fa impazzire tutti. Con voce chiara e ferma disse: — Ora parlo seriamente. Mostrati ed esci da questa cabina.

Silenzio.

Riprese le redini. Inutile. Concentrarsi era impossibile. Lui conosceva molte tecniche per farlo, per portare la propria coscienza ad un livello di inattaccabile serenità. Ma era in grado di ottenerla, ora, così turbato e fuori fase? Ci avrebbe provato. Doveva riuscirci. Il carro aveva indugiato già troppo in quel luogo. Leaf chiamò a raccolta tutte le sue migliori risorse, purificò se stesso da ogni dissonanza, si costrinse a cadere lentamente in trance.

Sembrò funzionare. L’oscurità lo chiamò. Lui si fermò sulla soglia. Fu sul punto di attraversarla.

— Stupido, davvero uno stupido — disse all’improvviso una voce secca scaturita dal nulla, che gli perforò le orecchie come i denti aguzzi dei topi del Deserto Bianco.

La trance si interruppe. Leaf tremò come se fosse stato pugnalato e si raddrizzò con il viso rosso per l’eccitazione.

— Chi ha parlato?

— Metti giù quelle redini, amico. Continuare lungo questa strada è un grosso spreco di energie.

— Allora non ero pazzo e non lo era neppure Sting. Qui c’è qualcosa!

— Un fantasma, sì, un fantasma, un fantasma, un fantasma. — Il fantasma lo inondò con uno scroscio di risa.

Leaf sentì la tensione allentarsi. Meglio essere afflitti da un fantasma vero che essere infastidito dalle fantasie della propria mente malata. La pazzia lo spaventava molto di più dell’invisibile. E poi pensava di sapere chi fosse quella creatura.

— Dove sei, fantasma?

— Non lontano da te. Sono qui. Qui. Qui. — Una voce da tre punti diversi della cabina, in rapida successione. L’essere invisibile cominciò a cantare. Era un canto acuto e lamentoso, un suono lacerante che mise a dura prova la sopportazione di Leaf. Continuava a non vedere nessuno, pur strizzando gli occhi e sforzandosi al massimo. Pensò di intravedere un pallido velo di luce rosa che galleggiava lungo la parete della cabina, una foschia fumosa che si muoveva da un punto all’altro, una specie di patina luccicante, come un velo di olio sull’acqua, ma tutte le volte che cercava di fissarvi lo sguardo, quella vaga presenza sembrava evaporare.