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Lui scende più in basso, senza toccare nulla. Giù.

Entra in un luogo dove la galleria si allarga diventando una stanza dalle pareti lisce, sigillate ad una estremità. Lui si sdraia sul pavimento. Questo è di pietra nera, viscida e scivolosa; lui sogna in un calore dolce e acquiescente simile al grembo materno. Qui i colori sono confusi, i suoni attutiti. Ode una musica lontana, soffocata e tambureggiante, rat-a-tat, rat-a-tat, bllooom, bllooom.

Ora può entrare completamente in contatto con le menti dei cavalli. Il suo spirito si espande verso di loro: lui le avvolge, le accoglie dentro di sé. Avverte l’identità di ognuna, percepisce il mutevole gioco delle loro emozioni, l’impennata delle loro fantasie, le loro paure. Ogni giumenta ha una propria reazione alla pioggia, ai ragni, alla strada fradicia d’acqua. Una è irrequieta, l’altra timorosa, una furente, una scontrosa, l’altra tesa, l’altra torpida. Immette energia in loro. Le unisce. Avanti, radunate le forze, portateci avanti; questa è la strada, dobbiamo andare.

Gli incubi si agitano.

Rispondono bene al suo tocco. Lui pensa che come guidatore lo preferiscano a Sting e a Shadow: Sting è troppo rigido, Shadow troppo permissiva. Leaf le tiene unite, le dirige con facilità, dà loro la guida di cui hanno bisogno. Esse sono intelligenti, sì hanno personalità, scopi, ideali, ma sono anche bestie da soma, e Leaf non lo dimentica mai, perché anche gli stessi incubi non lo dimenticano.

Forza, ora, avanti.

La strada è spaventosa. Gli zoccoli producono un suono simile ad un risucchio uscendo dal fango. Loro si lamentano; abbiamo freddo, siamo bagnate, siamo stanche. Sogna per loro delle ali, perché il cammino sia più agevole. Per ammansirle sogna la luce del sole, un calore munifico, una strada asciutta, un trotto lieve. Sogna colline verdi, cascate di fiori gialli, il fruscio delle ali dei colibrì, il ronzio delle api. Dona alle giumente una dolce estate ed esse si calmano; sollevano la testa, spiegano le loro ali di sogno e si lisciano le penne: sono pronte a riprendere il viaggio. Tirano all’unisono, il rotore ronza allegramente. Il carro scivola in avanti con un movimento fluido e costante.

Leaf, sprofondato nella trance, non è in grado di vedere la strada, ma questo non ha importanza; le giumente la vedono per lui e gli inviano le immagini, cangianti e fluide immagini di sogno, polarizzate, rifratte e diffratte dalla stranezza del loro modo di vedere e dalla distorsione di quella comunicazione sognante: sei visioni simultanee e individuali. Ecco la strada, contornata da bianche betulle sferzate da un vento furioso. Ecco la strada, una linea di terra che taglia una foresta di pini maestosi curvati dal peso della candida neve appena caduta. Ecco la strada, un nastro fertile su cui spuntano brillanti papaveri rossi nei punti toccati dagli zoccoli. Pesci azzurri dalle piume carnose sono a testa in giù ai lati della strada. Panciuti borghesi della tribù degli Arti stendono brillanti tovaglie candide sui margini erbosi e si cibano di ostriche dagli occhi enormi, pieni di riprovazione. Figure mascherate corrono rapidissime tra le zampe dei cavalli. La strada devia, devia ancora, si ripiega su se stessa, incrocia se stessa formando una sorta di cappio. Leaf integra questa pioggia di dati vertiginosa e confusa, dividendo il reale dall’irreale, miscelando e concentrando l’afflusso, e usandolo per guidare se stesso nella guida degli animali. Serenamente, coordina i loro movimenti con impulsi di pensiero rapidi e sicuri, in modo che ogni animale spinga con uguale forza. Il carro è in equilibrio precario sulla sua colonna d’?ria e una spinta ineguale può farlo scivolare nell’insidioso boschetto alla sinistra della strada. Invia rapidi messaggi lungo lo spesso condotto che unisce la sua mente alla loro. Attente, attente! Guardate quel pantano davanti a voi! Ah! Ah, ecco la mia bambina. Attente, ragni sulla sinistra! Bene! Sì, sì, ah sì! Con un refolo della propria mente accarezza i loro fianchi possenti. Ricompensa la loro agilità con visioni della stalla, del fieno fresco, degli stalloni che le attendono alla fine del viaggio.

Da loro (perché loro lo amano, lui sa che lo amano) riceve calde visioni di una strada tutta gioia e bellezza; tutte le visioni convergono in una singola visione idealizzata: maestosi boschetti di alberi-vela e larghi prati in mezzo ai quali scorrono torrenti limpidi. Sognano per lui anche la sua vita passata, rimandandogli casuali perle autobiografiche disseminate nelle pieghe del suo essere. Quello che gli trasmettono è filtrato e trasformato dalla loro sensibilità aliena, colorato di brillanti allucinazioni, stirato e contorto in altre forme e dimensioni, eppure lui è ugualmente in grado di percepire il significato essenziale di ogni quadro: la sua infanzia nei parchi e nei giardini dell’oasi della Pura Discendenza vicino al Mare Interno, gli anni dei suoi vagabondaggi tra le razze innumerevoli, sconosciute, e non completamente umane, dell’entroterra; il breve e felice soggiorno nelle terre occidentali coperte di nebbia, il viaggio verso est nei primi anni dell’età adulta, sempre seguendo il volere dell’Anima, sempre piegandosi ai venti, accettando qualunque destino gli si presentasse; verso est, con un gruppo di amici che erano più che fratelli, in quelle province orientali da lui adottate; la sua casa là, adagiata sulle rive di un lato, padiglioni di legno lucido e tende che si gonfiavano al vento, la sua collezione di vestigia del genere umano dei tempi andati (pezzi di macchinari, eleganti serpentine di metallo, monete arrugginite, statuette grottesche, cunei di plastica indistruttibile) tutti alloggiati in un’ala apposita, con un proprio sovrintendente. Perso in quelle fantasticherie, non ricorda più che la casa sul lago è stata ridotta in cenere dai Denti, che gli amici dei giorni più lieti sono morti, i suoi possedimenti devastati, tutte le sue cose sparpagliate tra le macerie.

Impercettibilmente, il sogno perde la sua dolcezza.

Ragni, pioggia e fango vi si insinuano. Il vago oscurarsi delle immagini che pervadono la sua mente sognante gli ricorda che è stato spogliato di ogni cosa e che è divenuto, ora che si è dato alla fuga, solo un guidatore al soldo di un bestiale mercenario del Lago Scuro, anche lui fuggiasco.

Ora Leaf fa più fatica a controllare le pariglie. Il passo dei cavalli sembra meno sicuro, rallenta; qualche cosa li disturba ed un’ansia aspra e querula pervade i messaggi che gli inviano. Lui comprende il loro umore, vede se stesso aggiogato ai lati del carro ed è Crown a tenere le redini, Crown che agita un’orribile frusta, Crown che spinge il carro a velocità pazza, in cerca di alleati che lo aiutino ad appagare il suo sogno di liberare le terre conquistate dai Denti. Non c’è modo di sfuggire a Crown. Si leva sul paesaggio come un mostro di fumo congelato, crescendo fino ad oscurare il cielo. Leaf si domanda come farà a liberarsi di Crown. Shadow corre al suo fianco, accarezzandogli il viso, mormorando, e lui le chiede di sciogliere i finimenti, ma lei risponde che non può, che è loro dovere servire Crown, e allora Leaf si rivolge a Sting, anche lui legato al suo fianco, e gli domanda aiuto, ma Sting scivola nel fango quando la frusta di Crown gli si abbatte sulla schiena. Non c’è scampo. Il carro trema e sbanda. Il cavallo di destra scarta, sta per cadere, si riprende. Leaf decide che la stanchezza sta cominciando a farsi sentire. Quel giorno ha guidato moltissimo e lo sforzo è stato grande. Ma la pioggia continua a cadere (per un attimo lui penetra oltre il velo delle illusioni, oltre le scene di primavera, estate e autunno, e vede l’acqua purpurea cadere a grandi scrosci dal cielo) e non c’è nessun altro che possa guidare, così lui deve continuare.