— Uff! — fece lui. — Tasta, allora!
Le dita di lei, dalla pelle rugosa, cascante, gli percorsero lo scalpo tracciando sentieri in mezzo alla ricrescita. — Santo cielo!
Lui rialzò la testa, con un sorriso vittorioso. Aveva saputo sopportare con stoicismo la prima comparsa della calvizie, intorno ai trent’anni, ma adesso era felice come una Pasqua.
— E tu? — chiese alla moglie, mentre si accomodava sul bracciolo. — Qualche segno?
Sarah scosse la testa, lentamente, con un velo di tristezza. — No. Ancora nulla.
— Vedrai — fece lui, accarezzandole il braccio — sono sicuro che avrai presto delle novità.
9
Sarah non avrebbe mai dimenticato il 1° marzo 2009. Aveva quarantotto anni, da cinque anni era una sopravvissuta al cancro al seno, e da dieci aveva una cattedra all’Università di Toronto. Si era appena incamminata per il corridoio del quattordicesimo piano dell’ateneo, quando aveva sentito squillare il telefono dal suo ufficio. Si precipitò a rispondere, lieta che in quell’ambiente non fossero prescritte scarpe con i tacchi. Per fortuna aveva già in mano la chiave, altrimenti non sarebbe riuscita a varcare la soglia dell’ufficio prima che scattasse la segreteria telefonica. — Sì, pronto? — aveva detto nella cornetta beige.
— Sarah, sono Don. Hai sentito le novità?
— Ciao, tesoro. No, sono disinformata: che è successo?
— È arrivato un messaggio da Sigma Draconis.
— Ma che stai dicendo?!
— Un messaggio da Sigma — ripeté lui, come se l’obiezione fosse dovuta a problemi di udito. — Sono in ufficio. La notizia è su tutti i canali e tutti i siti Internet.
— Non è possibile — disse lei, e intanto accendeva il computer: — Mi avrebbero avvertita, prima di dare pubblicità alla cosa.
— È così, ti dico. Ti vogliono stasera ad As It Happens.
— Già, immagino. Ma dev’essere una bufala. In base alla “Dichiarazione di principi”...
— In questo momento c’è Seth Shostak che ne sta parlando alla NPR. Pare che il messaggio sia arrivato stanotte, e che qualcuno abbia fatto la spia.
Il computer di Sarah stava ancora caricando. Si sentirono le note musicali che accompagnavano l’apertura del sistema. — E che dice?
— Boh. Qui ognuno sta sparando la propria ipotesi.
Sarah batteva le dita sulla scrivania, innervosita dalla lentezza del PC. Una dopo l’altra, le icone apparivano sul desktop; altre, più piccole, sulla barra di sistema.
— In ogni caso — disse Don — ora devo proprio andare, mi chiamano dalla sala regia. Più tardi ti contatteranno per accordarsi con te su un’intervista. Il messaggio lo trovi dappertutto in Rete. Ciao!
— Ciao. — Abbassò la cornetta con la mano sinistra, mentre con la destra manovrava il mouse. Presto ebbe a video il messaggio: una lunga sfilza di numeri O e 1. Ancora perplessa, Sarah aprì qualche altra finestra per scoprire quando e come fosse avvenuta la ricezione, che cosa fosse stato appurato finora, eccetera.
Venne fuori almeno una certezza: non era una bufala.
Sarah si lasciò andare sulla sedia della scrivania e, sebbene fosse sola, ripeté ad alta voce la frase che a SETI era diventata un mantra, dopo che Walter Sullivan l’aveva utilizzata come titolo di un suo famoso libro: — Non siamo soli...
— Ma, professoressa Halifax, potremmo non riuscire mai a decodificare il messaggio alieno, non è così? — aveva chiesto, sempre nel 2009, l’intervistatrice radiofonica Carol-qualcosa durante la trasmissione As It Happens. — Voglio dire, viviamo su questo pianeta insieme ai delfini, ma non capiamo che cosa si dicono tra loro. Come faremo a interpretare la lingua di gente di un altro mondo?
Sarah sorrise in direzione di Don, che si trovava in regia dalla parte opposta della vetrata. Era un tema che tra loro due avevano già affrontato. — Anzitutto, i delfini potrebbero non avere nessuna lingua; almeno, non una lingua ricca e concettuale come la nostra. In rapporto alle dimensioni corporee, infatti, il loro cervello è piu piccolo del nostro, e ne usano gran parte a scopi di eco-locazione.
— Insomma, non comprendiamo il loro linguaggio perché non ce l’hanno?
— Esatto. Inoltre, il solo fatto che viviamo sullo stesso pianeta dei delfini non implica che abbiamo più cose in comune con loro che con gli alieni. Con i cetacei, anzi, abbiamo pochissimo in comune. Loro, per esempio, non hanno mani; ma gli alieni sì, senz’altro.
— Wow, professoressa Halifax! Come fa a saperlo?
— Per il semplice fatto che hanno costruito dei radiotrasmettitori. Hanno dimostrato di essere una specie tecnologicamente avanzata. È un fatto quasi certo che abitino sulla terraferma, e anche questo li rende più simili a noi che i delfini.
Ora, per costruire apparecchi radio è necessario usare il fuoco per la metallurgia, e così via. Inoltre, va da sé che usare segnali radio presuppone conoscenze matematiche, ed ecco un’altra caratteristica che condividiamo.
— Non tutti noi umani siamo bravi in matematica — disse l’intervistatrice in tono carezzevole. — Però, in soldoni, sta dicendo che chi ha inviato il messaggio deve per forza essere molto simile a chi lo voleva ricevere?
Sarah ponderò per qualche istante. — Bé, mmm... sì. Sì, ritengo che sia così.
La dottoressa Petra Jones era nera, alta e vestita in modo impeccabile; dimostrava trent’anni, ma con gli impiegati Rejuvenex non si poteva mai sapere, pensò Don. Comunque, era una gran bella donna, con zigomi alti e occhi vivaci. E con treccine rasta: una moda che nel corso della sua vita Don aveva visto sparire e riapparire varie volte. Era venuta a casa Halifax per la consueta visita settimanale, nell’ambito di un itinerario fisso che la portava in diverse città a supervisionare le condizioni dei clienti Rejuvenex.
Petra si accomodò nel soggiorno di Betty Ann Drive, incrociando le lunghe gambe. Di fronte a lei c’era una delle finestre che si aprivano ai lati del caminetto.
Fuori, la neve si era sciolta; stava arrivando la primavera. La dottoressa fissò Sarah, poi Don, poi di nuovo Sarah, e alla fine disse senza tanti giri: — Qualcosa è andato storto.
— Che vuol dire? — scattò Don.
Ma Sarah annuì. La sua voce tradiva una profonda tristezza. — Non sto avendo nessun Rollback, vero?
Don ebbe un tuffo al cuore. Petra scosse la testa; le perline intrecciate ai capelli emisero un ticchettio. — Mi spiace. Davvero — disse, con la massima dolcezza possibile.
— Lo sapevo — gemette Sarah. — Me lo sentivo, dentro.
— Ma perché? — premette Don. — Perché diavolo non ha funzionato?
Petra sollevò appena appena le spalle. — Questo è il problema. Una nostra squadra ci sta lavorando proprio in questo istante, e...
— E si potrà trovare una soluzione? — disse Don. “Dio, ti prego, fá che succeda.”
— Non lo sappiamo ancora — rispose Petra. Finora non era mai capitato. — Fece una pausa, come per raccogliere le idee. — L’operazione di allungamento dei telomeri si è conclusa con successo, signora Sarah; ma, per qualche ragione, man mano che i suoi cromosomi si riproducono, ignorano le nuove sequenze terminali.
Invece di trascrivere fino in fondo il suo DNA, l’enzima replicatore si ferma prima, al punto in cui i cromosomi terminavano in precedenza. — Altra pausa. — Vengono rigettati anche altri processi biologici da noi introdotti. E, anche in questo caso, non capiamo perché.
Don era scattato in piedi. — Stronzate! — disse. — Laggiù affermavano tutti di sapere benissimo cosa stavano facendo.
Petra ebbe un attimo di esitazione, poi prese coraggio. — Ascolti — disse — io sono un medico, non una commerciale. Le nostre conoscenze sui processi di senescenza e morte programmata delle cellule superano quelle di chiunque altro.