Arrivato alla Union Station, Don uscì e di diresse a piedi al vicino palazzo della CBC, un enorme cubo che sembrava progettato dal Borg di Star Trek.
Conosceva quel posto come... bé, non come il palmo della propria mano. A quel palmo sodo e liscio non si era ancora abituato al cento per cento. In ogni caso, non aveva più il badge, per cui dovette attendere in reception finché non fosse venuto qualcuno ad accompagnarlo negli uffici. Mentre aspettava, osservò gli ologrammi in scala 1:1 degli attuali boss della CBC (ai suoi tempi, al posto degli “olo” c’erano delle sagome in cartone). Riconobbe quasi tutti i nomi, però i volti non gli erano familiari.
— Il signor Donald Halifax? — chiese una voce. Lui si voltò e vide un uomo sui trentacinque anni, asiatico, con incongrui capelli color pesca. — Ben Chou — si presentò.
— La ringrazio per avermi voluto ricevere — disse Don, mentre Ben lo accompagnava verso il corridoio.
— Si figuri! — rispose lui. — Lei qui dentro è un mito.
Don sollevò un sopracciglio. — Sul serio?
Entrarono in ascensore. — Altroché. L’unico tecnico del suono con cui John Pellatt accettava di lavorare!
Usciti dall’ascensore, raggiunsero un ufficetto claustrofobico. — In ogni caso, è un vero piacere poterla incontrare — disse Chou. — Anche se non mi è chiara la sua richiesta di impiego. Voglio dire, se può permettersi un Rollback, che ci fa qui?
— Lanciò un’occhiata, all’intorno.
Erano al quinto piano e, se ci fossero state finestre, si sarebbe potuto ammirare il lago Ontario; ma, a qualunque piano, quell’edificio ti faceva sentire sottoterra.
— Non posso assolutamente permettermela — rispose Don, mentre si accomodava sulla sedia offertagli da Ben.
— Oh, sì, certo, ma dato che sua moglie...
Don si accigliò. — Che intende dire?
Ben sembrava confuso. — Bé, non è ricca? Dopotutto era stata lei a decodificare il primo messaggio.
— No, neppure lei nuota nell’oro. — Sarah avrebbe forse potuto diventare ricca, se avesse firmato il contratto editoriale giusto al momento giusto, o si fosse fatta pagare tutte le conferenze tenute nei mesi successivi alla scoperta... Ma inutile piangere sul latte versato. Per qualunque aspetto della vita.
— Oh, io... bé...
— Ed ecco perché ho bisogno di un impiego — disse Don. Interrompere continuamente un potenziale datore di lavoro non sembrava una buona strategia per fare carriera. Ma lui era fatto così.
— Ah — fece Chou. Controllò sul lettore digitale che teneva sulla scrivania. — Interessante, lei ha frequentato i corsi di Tecniche radiotelevisive all’Università di Ryerson... Anch’io! — Poi Ben ebbe un lieve sobbalzo. — Lei, nel 1982. — Scosse la testa. — Io nel 2035.
Il sottinteso era evidente. Don cercò di dirottare il discorso con una battuta: — Ah! E insegna ancora il carissimo professor Tutankhamon?
Ben ebbe la cortesia di emettere una risatina nasale. — E... per quanto tempo ha lavorato qui alla CBC?
— Per trentasei anni. Avevo la qualifica di direttore di produzione quando sono andato in...
S’interruppe di colpo. Ma Ben supplì il termine, sottolineandolo con un lieve cenno del capo: — Pensione.
— Però, come vede, sono tornato alla mia giovinezza. E desidero tornare a lavorare.
— In che anno è andato in pensione?
“Bastardo, hai il dato lì davanti ai tuoi occhi” pensò Don “ma vuoi che mi autodenunci con le mie labbra.” — Nel 2022.
Chou scosse leggermente la testa. — Wow. Chi era il primo ministro all’epoca?
— Comunque — disse Don, sorvolando sull’ironia — ho bisogno di un lavoro.
E quando uno ce l’ha nel sangue...
Chou annuì. — Ha mai operato sul sistema Mennenga 9600?
Don fece segnò di no.
— E su Evoterra C-49? Sono quelli attualmente in dotazione.
Altro diniego.
— Come se la cava con il montaggio audio?
— Ho migliaia di ore di esperienza. — Per quanto metà di quelle ore le avesse trascorse a tagliare fisicamente i nastri con delle lamette da barba.
— Sì, ma con quali apparecchiature?
— Studer, Neve Capricorn, Euphonix. — Tralasciò deliberatamente di precisare i modelli, e neppure menzionò il marchio Kadosura, fuori commercio da quattro lustri.
— È che la tecnologia si evolve così in fretta — disse Ben.
— Questo lo capisco. Ma i princìpi base...
— Anche quelli, e lo sa. Non montiamo più il materiale audio come si faceva dieci anni fa, per non parlare di mezzo secolo fa. Sono cambiati gli stili, i ritmi; è cambiato il suono in quanto tale. — Scosse di nuovo la testa, e passò al “tu”. — Vorrei poterti essere utile, Don. Qualunque cosa, per un alunno della Ryerson. È che purtroppo... — allargò le braccia. — Anche un novellino appena uscito da un istituto tecnico avrebbe più competenze di te. Cavoli, Don, sono cose che saprai meglio di me.
— Non chiedo di mettermi a smanettare — disse lui. — Nell’ultimo periodo, okay, non per molto, ma mi occupavo soprattutto di coordinare il lavoro altrui. E lì non è cambiato nulla.
— Esatto, proprio così. Non è cambiato nulla: una persona che dimostra poco più di vent’anni non riuscirà mai a ottenere il rispetto di gente che ne ha cinquanta.
In più, qui mi servono coordinatori che si accorgano quando un tecnico li sta prendendo per il culo.
— Non c’è proprio niente? — disse Don.
— Hai provato a chiedere al pianoterra?
Don corrugò la fronte. — L’atrio? — Era stato ribattezzato Barbara Frum Atrium, e Don apparteneva alla generazione di quelli che avevano conosciuto Barbara. Era costituito da un paio di ristoranti, tre gabbiotti della sicurezza e un immenso open space.
Ben annuì.
— L’atrio?! — esplose Don. — Non m’interessa diventare una fottuta guardia giurata.
Ben lo interruppe sollevando una mano. — No, no, non intendevo quello. Non avertene a male, ma pensavo al museo.
A Don cadde la mascella. “Non avertene a male”, e poi gli aveva sferrato un colpo all’inguine. Era un dettaglio di cui si era dimenticato: dall’atrio si apriva un museo sulla storia della CBC.
— Non sono un dannato reperto!
— No, no... no! Neppure quello intendevo. Volevo solo suggerire che potresti proporti come curatore. Voglio dire, su gran parte del materiale in esposizione hai conoscenze di prima mano. Sai tutto non solo su Pellatt, ma su Peter Gzowski, Sook-Yin Lee, Bob McDonald e tutti quanti. Hai lavorato gomito a gomito con loro. Qui dice anche che ti sei occupato di storiche trasmissioni come As It Happens e Faster Than Light.
Ben faceva del suo meglio per apparire gentile, ma quando è troppo, è troppo.
— Non voglio vivere nel passato — disse Don. — Voglio essere parte del presente.
Ben diede un’occhiata all’orologio a muro, uno di quei modelli da studio con al centro i LED dell’ora, e intorno sessanta punti che si illuminano in sequenza al passare dei secondi. — Ascolta — disse — devo proprio andare, sono sommerso di lavoro. Ti ringrazio per essere venuto. — Si alzò e gli tese la mano. Don non poté stabilire se la stretta di Chou fosse abitualmente moscia, o se fosse così blanda per il timore di fare del male a un vecchio di ottantasette anni.
18
Don ridiscese nell’atrio. Dava una buona immagine del Paese, quel luogo accessibile a tutti, con i suoi sei piani di balconate interne e il suo viavai di celebrità (il termine “star” era considerato un’americanata) che si spostavano senza codazzo di guardie del corpo. Il ristorantino Ooh La La!, che sorgeva lì da sempre, aveva un dehors in cui uno degli anchorman di Newsworld stava consumando un’insalata greca; al tavolo accanto sorseggiava un caffè il mattatore di un programma per bambini che Don aveva visto insieme alla nipote; l’attuale conduttrice di Ideas si stava dirigendo verso l’ascensore. Uno spazio davvero aperto e accogliente, pensò Don; tranne che per lui.