— Pare anche a me.
— Bene. Ma per lunghissimo tempo si è provato disgusto per le unioni omosessuali o quelle miste, che oggi sono accettate dalla maggioranza. Per cui, il solo fatto che qualcosa sia stato ritenuto riprovevole da molte persone non dimostra che sia universalmente sbagliato. La morale si evolve, tanto più che le idee innovative possono essere diffuse tramite il ragionamento, come è successo con i diritti delle donne e quelli civili. Sono stati una serie di principi razionali a convincere la gente che la schiavitù e la discriminazione erano sbagliate.
L’educazione plasma i valori etici. Del resto, succede così anche con i bambini: il loro comportamento diventa più moralmente retto man mano che si sviluppano le loro facoltà razionali. Passano dall’idea che qualche azione è sbagliata “perché se mi scoprono, mi puniscono” all’idea che qualche azione è sbagliata in quanto tale.
Insomma, forse agli occhi dei Draconiani siamo abbastanza adulti da meritare una prosecuzione dei contatti; o forse no, e in quel caso non sappiamo quali risposte scegliere per non darci la zappa sui piedi. — Si accoccolò contro di lui. — Senti, alla fine penso che la cosa migliore sia semplicemente fare ciò che ci hanno chiesto: mandare un migliaio di risposte a ogni domanda, indipendenti tra loro e il più franche possibile.
— Dopodiché?
— Dopodiché rimaniamo ad aspettare se loro ci scrivono ancora.
20
Era un’altra afosa giornata di agosto. Don era tornato in centro città, ma non in cerca di lavoro, il che gli consentì di indossare un abbigliamento adatto alla stagione: maglietta e pantaloncini. Riemergere dalla metropolitana non fu una sauna, stavolta.
Sarah, come tutto il resto del team SETI, era ancora alla ricerca della chiave per decodificare il secondo messaggio da Sigma Draconis. Nella notte aveva avuto un’intuizione, ma per metterla alla prova aveva bisogno di vecchio materiale cartaceo conservato negli archivi dell’università.
Un breve tragitto a piedi separava la fermata di Queen’s Park dai torreggianti Laboratori di fisica McLennan, sede della facoltà di Astronomia e astrofisica dell’Universita di Toronto. Dal tetto affioravano le cupole di due osservatori. Ogni volta che Don li notava, in passato, pensava sempre che a Toronto, con tutto l’inquinamento luminoso che c’era, erano veramente una spesa inutile. Adesso però si sorprese a paragonarli a un bel paio di tette.
Uscendo dall’ascensore al quattordicesimo piano dell’edificio, vide che lungo le pareti del corridoio era stata allestita una mostra sui personaggi famosi della facoltà. Tra essi: Helen Sawyer Hogg, scomparsa ormai da quarantacinque anni, della quale Don, da ragazzo, leggeva ogni sabato la rubrica di astronomia pubblicata sullo “Star”; Ian Shelton, scopritore della supenova 1987a nella Grande Nube di Magellano; e ovviamente Sarah. Si fermò a leggere la targa relativa a sua moglie, poi diede un’occhiata alla foto, che risaliva al almeno quarant’anni prima, dato che in nessun’altra epoca aveva portato i capelli così lunghi.
Oh bé, le foto d’epoca erano perfette per quel luogo: le università in quanto tali erano un anacronismo, nonostante la loro lotta pluridecennale contro la cultura on-line. Sacri palazzi e torri d’avorio, ecco che cos’erano... che poi era un modo nobile per dire che erano dei dinosauri istituzionali. E tuttavia, in una maniera o nell’altra, resistevano.
Riguardò l’immagine di Sarah, e serrò le mascelle. Se le cose fossero andate come dovevano, adesso sua moglie avrebbe avuto un aspetto ancora più giovanile.
Quella sarebbe stata la fotografia del suo futuro; di quando avrebbe fatto, per la seconda volta, il suo elegante ingresso nella mezza età, intorno al 2070.
Proseguendo lungo la curva del corridoio, trovò una serie di immagini astronomiche incorniciate. Poi, ecco la porta che cercava. Bussò delicatamente: un’abitudine che gli si era creata quando dare colpi troppo secchi alle porte gli indolenziva le nocche artritiche; con il rischio però che nessuno dall’interno lo sentisse. Per sicurezza stava per bussare con più forza, quando sentì una voce femminile che diceva: — Avanti!
Lui entrò lasciandosi la porta aperta alle spalle. Una giovane dai capelli rossi lo osservava con aria interrogativa da dietro una postazione elettronica.
— Cerco la signora Leonore Darby — disse Don.
Lei sollevò una mano: — Presente!
Don restò di stucco. Ora ricordava. La rossa da favola all’ultima festa di Natale in facoltà. Lui aveva fatto di tutto per non notarla, tanto lo sconvolgeva la sua bellezza.
Leonore dimostrava venticinque anni... venticinque anni autentici, ovviamente.
Una cascata di capelli color ruggine le copriva le spalle; aveva una pelle nordica e lentigginosa, occhi verde smeraldo. Anche lei in pantaloncini e maglietta, con la scritta ONDERDONK, che doveva essere un gruppo rock. Aveva annodato la parte inferiore della maglietta al di sopra dell’ombelico; pur essendo seduta, non mostrava neppure un accenno di adipe ai fianchi.
— In cosa posso esserle utile? — domandò, con un sorriso da spot pubblicitario.
Molte persone della generazione di Don erano afflitte da svariate imperfezioni odontotecniche, ma i giovani d’oggi avevano tutti dei denti perfetti, dritti, splendenti, senza neppure una carie.
Don si mise quasi sull’attenti. — Mi chiamo Donald Halifax. Mi è stato detto...
— Oh mio Dio! — esclamò Leonore. Lo squadrò da una parte all’altra, mettendolo in serio imbarazzo; probabilmente lui arrossì. — Mi aspettavo che venisse... bé, sarà suo nonno. Ha preso il nome da lui?
Lo scorso dicembre la ragazza aveva conosciuto un Don Halifax di ottantasette anni, e adesso le avevano annunciato l’arrivo di un tizio con quel nome, che veniva a prelevare materiale per Sarah. Facendo due più due...
L’ipotesi di Leonore, di per sé, non era poi così campata per aria. — Esatto — rispose Don, e lo era sul serio: il suo home completo all’anagrafe risultava Donald Roscoe Halifax, dove Roscoe era il nonno paterno.
Ma sì, perché no? Era uno scherzo innocente, e poi a Don non andava di ripetere tutta la triste storia del Rollback. Senza contare che probabilmente non avrebbe mai più incontrato quella meraviglia in vita sua.
— Felice di conoscerla — disse Leonore. — Ho incontrato suo nonno in un paio di occasioni, è un tipo ancora in gamba!
Lui gongolò. — È vero.
— E come sta...
Don trattenne il fiato. Se la ragazza avesse aggiunto “sua nonna”, lo scherzo avrebbe cominciato a diventare pesante. Ma lei disse: — ...la professoressa Halifax?
— Bene, grazie.
— Sono contenta. — Poi però, a sorpresa, scosse la testa e affermò: — Certe volte vorrei avere qualche anno in più. — Sorrise e si alzò, sciogliendo il nodo della maglietta e tirandola per farla cadere a posto; l’effetto immediato fu di mettere in rilievo le curve dei seni. — Sì, perché in quel modo avrei potuto averla come relatrice di tesi. Non che abbia nulla contro il professor Danylak, ma, sa, è frustrante ritrovarsi a studiare nella sede in cui insegnava la massima esperta, e non poter fare neppure un corso con lei.
— Anche lei al progetto SETI?
Leonore annuì. — Già! Perciò, come può immaginare, per me la professoressa Halifax è un mito.
— Eh sì — rispose Don, poi diede un’occhiata alla stanza, perché...
Perché finora aveva avuto solo occhi, troppi occhi, per quella ragazza.
L’ambiente era suddiviso dalle solite pareti mobili; a una parete erano accostati una schiera di mobiletti per archivio. Gli uffici completamente computerizzati e le automobili volanti facevano parte, da sempre, del “prossimo futuro”; forse la sua nuova vita avrebbe permesso a Don di veder realizzarsi l’una o l’altra delle due ipotesi.