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Stava per pronunciare la frase successiva, ma si bloccò in tempo. Le parole sarebbero state: “Sarah mi ha chiesto...”, però nessuno si riferirebbe in quel modo a sua nonna. Ma chiamare Sarah “mia nonna”, mai e poi mai. Dopo un interminabile secondo, optò per il verbo al passivo: — Mi è stato chiesto di prelevare alcuni vecchi documenti.

— Lo so — fece Leonore. — Qui dentro sono l’ultima ruota del carro, perciò hanno spedito me in cantina a scartabellare montagne di carta. Glieli prendo subito.

Attraversò la stanza, seguita dagli occhi di lui, che si soffermarono in particolare sui movimenti della parte posteriore dei pantaloncini. In cima a uno dei mobiletti era posato, un mazzo di fogli racchiusi in una serie di cartelline; il tutto era alto una trentina di centimetri.

Don era terrorizzato dall’effetto che poteva fare sulla gente il suo nuovo aspetto: siccome guardandosi allo specchio aveva sempre un sussulto, immaginava che tutti avessero la stessa reazione. Però, quando Leonore gli porse i documenti, non diede segno di trovare niente di strano in lui.

Da parte sua, Don aveva recuperato anche il senso dell’olfatto: ora assaporava l’aroma di pesca che saliva da lei. Non un profumo; piuttosto, uno shampoo o un balsamo.

— Oh Gesù — disse lui. — Non mi aspettavo tutta... questa roba!

— Ha bisogno di una mano fino alla macchina?

— Per la verità, sono venuto in metropolitana.

— Oh! Allora posso darle un contenitore per trasportarli meglio.

— La ringrazio. Il guaio è che... — Lei lo osservò incuriosita. Lui proseguì: — È che prima di rincasare avevo in programma visitare la Galleria d’arte. C’è una mostra speciale sulle opere in vetro soffiato di Robyn Herrington.

— Magnifico, la Galleria si trova a soli due isolati da qui. Perché non lascia qui i documenti, e non torna a prenderli quando avrà finito?

— Non vorrei disturbare.

— Ma niente affatto! Resterò in ufficio fino alle cinque.

— Stacanovista, eh? Deve piacerle un sacco lavorare qui.

Lei si appoggiò alla scrivania. — Sì, è bellissimo.

— Specializzanda?

— Non ancora. Sto terminando il master.

— Ha fatto qui anche i corsi base?

— No, studiavo alla Simon Fraser.

Lui annuì. — Dov’è più? Vancouver?

— Esatto. E, senza offesa, laggiù era meglio. Qui mi manca l’oceano, le montagne... e questo clima non lo sopporto.

— Ma alla lunga Vancouver non è una palla, con tutta quella pioggia?

— Ormai non ci faccio neanche più caso, mi ci sono abituata. Ma qui... la neve d’inverno, l’afa d’estate! Se non ci fosse l’aria condizionata, sarei già morta.

Neppure Don amava alla follia il clima di Toronto. Annuì di nuovo. — Quindi, terminati gli studi, tornerà tra i suoi monti?

— Mmm, credo di no. Mi piacerebbe andare in qualche posto nell’emisfero australe. Laggiù finora sono state fatte pochissime ricerche in stile SETI.

— Ha in mente qualche posto in particolare?

— L’Università di Canterbury dove hanno un’ottima facoltà di Astronomia.

— Dov’è?

— In Nuova Zelanda.

— Ho capito: oceano e montagne!

Lei sorrise. — Proprio così.

— Ci è mai stata?

— No, no. Ma prima o poi...

— Auguri.

— E lei? — domandò Leonore, sollevando il sopracciglio rosso verso la fronte lentigginosa.

— Oh sì, nel... — frenò in tempo. Stava per dire “nel 1992”. — Qualche anno fa, non ricordo con precisione.

Oo-uh — reagì lei, formando quasi un cuoricino con le labbra. — E com’è?

Le è piaciuta?

Don pensò che fosse giunto il momento di interrompere il contatto visivo con la ragazza. Spostò le pupille su un orologio a muro. Erano l’una e dieci, e infatti cominciava a sentire fame. Anche il senso del gusto era tornato ai fasti della gioventù: dopo lunghi periodi di sacrifici, l’aumento progressivo della massa muscolare durante il processo di Rollback gli aveva fatto venire un appetito da lupo. Adesso si era stabilizzato sullo standard dei suoi venticinque anni, che era ancora piuttosto notevole.

— Via — disse — la ringrazio della cortesia di tenermi i documenti. Ora devo proprio andare.

— Direttamente in Galleria?

— A essere sinceri, prima farò pausa pranzo. C’è qualche posto carino nei paraggi?

— Il Duca di York, glielo consiglio. Anzi...

— Sì?

— Bé, ho sul serio l’intenzione di trasferirmi in Nuova Zelanda, per cui mi piacerebbe ascoltare le sue impressioni di viaggio. Le spiace se facciamo pausa insieme?

21

All’uscita dall’edificio, Don e Leonore vennero accolti da un sole a picco nel cielo color mercurio, e da un’umidità soffocante. A sud, in mezzo alla foschia baluginava la sagoma della CN Tower. Il campus era deserto, perlomeno di studenti, ma in Bloor Street si accalcava una folla composta in parti uguali da uomini d’affari locali e turisti, più qualche robot immancabilmente di corsa. Per strada i due parlavano di Nuova Zelanda.

— Un gran bel posto — diceva Don — se non fosse per quella loro mania di ficcare fette di barbabietola negli hamburger che... Toh, guarda là! — C’era un’auto parcheggiata vicino al marciapiede, sulla cui targa comparivano le lettere PQHO. — Qoph — disse lui.

Leonore ebbe un attimo di esitazione, poi: — Ah, è una lettera dell’alfabeto ebraico! Che occhio! Gioca a Scarabeo? — Solo i campioni di Scarabeo sapevano trovare così al volo parole con la O ma senza la U.

Don sorrise. — Ebbene si!

— Anch’io. E anch’io mi esercito leggendo le targhe delle automobili!

Proseguirono verso il ristorante riprendendo l’argomento Nuova Zelanda; quando furono al Duca di York Don aveva quasi esaurito le sue conoscenze in materia. Il locale era una sorta di pub a due piani che dava su una strada tranquilla.

Gli edifici intorno, tutti rimessi a nuovo, davano l’impressione di ospitare uffici di consulenti e avvocati d’alto bordo. I due presero posto a un tavolo in fondo al primo piano; dagli altoparlanti veniva musica rock, o come accidenti i giovani d’oggi chiamavano la roba che ascoltavano; provvidenzialmente c’era l’aria condizioriata.

Al tavolo accanto erano seduti tre uomini. A ricevere le ordinazioni dei vini era arrivata una cameriera dell’età di Leonore, quasi altrettanto sexy con un toppino nero in pelle dalla scollatura vertiginosa.

— Rosso o bianco? — chiese uno dei tre, rivolto ai commensali.

— Rosso — risposero gli altri due quasi all’unisono.

Il primo uomo si rivolse alla cameriera: — Sento rosso.

Leonore si chinò e sussurrò a Don in un orecchio: — Wow, quel tipo deve soffrire di sinestesia!

Don sghignazzò.

Poi la cameriera si rivolse a loro. Era alta, di spalle larghe, con pelle color cioccolata e capelli blu che scendevano fino in vita. — I signori desid... oh, Lennie!

Tesoro, scusa, non ti avevo riconosciuta!

Leonore sorrise rivolta a Don. — Lavoro qui due sere a settimana per arrotondare.

E all’improvviso lui ebbe un glorioso flash di Leonore abbigliata come quella cameriera (Gabby stando alla targhetta). Gabby si portò una mano al fianco generoso. — E il tuo amichetto chi è? — disse in tono ironicamente serio, come se i ragazzi di Lennie dovessero ricevere la sua alta approvazione.